Una poesia da Nella spirale letta per la puntata dedicata a Bartolo Cattafi – Poesia e Musica Italiana a cura di Elena Capra

Per chi volesse ascoltare la bella puntata di Poesia e Musica Italiana a cura di Elena Capra dedicata a Bartolo Cattafi con interventi di Diego Conticello, Daniela Pericone, Enrico De Lea, Marco Aragno e il sottoscritto che al minuto 13.20 ca. legge Nuovo Mondo, poesia tratta da Nella spirale (Stagioni di una catastrofe)Industria e Letteratura (2021), ma soprattutto seguita dalla splendida Anthrocene di Nick Cave che vale assai l’ascolto e il riascolto.

I luoghi e le scritture (rubrica di Antonio Devicienti): su “Transito all’ombra” di Gianluca D’Andrea

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Letizia Battaglia, Nella spiaggia dell’Arenella la festa è finita (1986)

di Antonio Devicienti

su “Transito all’ombra” di Gianluca D’Andrea 

Transito-allombra_web-300x480Il libro di Gianluca D’Andrea Transito all’ombra (Marcos y Marcos, Milano, 2016) possiede una compattezza stilistica e tematica che rispecchia la scelta nel contempo etica ed estetica effettuata dall’autore; non ci si aspetti dunque un’opera indulgente con le attese di lettori un po’ sprovveduti, ma neanche attestata su livelli di rarefazione snobistica della parola poetica – c’è un Maestro che accompagna i passi dell’autore, che lo ispira e sostiene in un dialogo continuo, discreto ed efficace, grazie al quale una tradizione nobilissima si lega a una modernità consapevole e problematica: l’Alighieri. E Transito all’ombra è altresì referto d’un attraversamento, d’un itinerario, d’un ininterrotto andare, proprio sulla falsariga dell’andare dantesco e attraverso territori che sono di volta in volta memoriali, psicologici, culturali, storici, politici. Ecco: se è forse vero che ancora adesso la produzione poetica italiana può essere anche interpretata a seconda ch’essa si approssimi più o meno a una linea petrarchesca o a una linea dantesca, Gianluca D’Andrea compie con il suo libro più recente un coraggioso tentativo di riappropriarsi della dirittura e del rigore etici danteschi per attraversare il mondo e l’Italia contemporanei anche tramite uno stile severo, privo d’infingimenti lirici e lo stile stesso è mezzo d’indagine impietosa che non indulge mai a languori, intimismi, vezzi letterari. Infatti Gianluca si misura con la difficilissima e insidiosa questione del soggettivismo e dell’io in poesia, mette in gioco tutto di sé stesso (ricordi, esperienze, luoghi cui è legato, persone care), ma sa sottrarsi alle cadute (o ai capitomboli) nel soggettivismo e nell’intimismo proprio in virtù d’uno stile sorvegliatissimo, capace di diventare acuminato scandaglio, intelligente lente d’osservazione, giusta distanza tra io scrivente e realtà osservata.
Accade così che il bellissimo titolo c’introduca a un libro-referto molto articolato e complesso: si comincia con un’infanzia, un’adolescenza e una giovinezza trascolorante fino alla maturità vissute nella Sicilia peloritana a partire dagli anni Settanta sino al mutamento del millennio; si prosegue poi con l’articolazione in sezioni che esprimono tutte la scelta del poeta d’interrogarsi su sé e sul suo ruolo in quanto io poetante e, aspetto fondamentale, in quanto persona immersa in un contesto storico preciso e di esso consapevole – deriva da qui il tema e l’andamento del viaggio che innerva molte pagine, un viaggio non turistico né di svago, ma puntigliosamente conoscitivo attraverso l’Italia contemporanea, traverso episodi di vita quotidiana che ben dicono la reazione e l’atteggiamento di un pensiero in continua tensione dialettica con realtà talvolta avvilenti o nemiche o alienanti, per cui la struttura del libro sembra essere quella di una Comedìa rovesciata (il “paradiso” dell’infanzia – anche se Gianluca non la presenta né come idillio, né come eden perduto, ma come un abbandono progressivo e naturale dell’innocenza per entrare dentro la maturità; il “purgatorio” di una Penisola percorsa da nord a sud anche per i periodici ritorni “a casa”, cioè in Sicilia per le vacanze; l’ “inferno” delle situazioni stranianti o alienanti cui accennavo poco fa o della discesa negli abissi della propria interiorità o di una storia contemporanea estremamente violenta).

Il volume si apre nel segno di Osip Mandel’štam, le cui parole costituiscono il filo d’Arianna per attraversarlo:

Non è di me che voglio parlare: voglio piuttosto seguire l’epoca, il rumore e il germogliare del tempo. La mia memoria è nemica di tutto ciò che è personale. Se fosse per me, mi limiterei a storcere il naso pensando al passato.

Osip Mandel’štam
(Il rumore del tempo, 1923-1924)

Già il titolo della prima sezione – La storia, i ricordi (titolo perfetto, suggerito, si legge in nota, da Diego Conticello, sodale e complice, mi vien fatto di dire, di Gianluca sia durante la scrittura di Transito, che nella vita privata – anticipa una caratteristica di questa parte del libro in cui i ricordi personali (d’infanzia e di giovinezza) strettamente s’intrecciano con i coevi avvenimenti, per cui microstoria (personale) e macrostoria (collettiva) trovano un interessante punto di congiunzione. Ma se il dato esperienziale personale è punto di partenza per molti testi presenti nel lavoro, l’autore pone estrema cura nell’evitare qualunque forma di soggettivismo e di ombelicale effusione di pensieri e/o sentimenti: egli esercita e tiene vigile una razionalità che, esprimendosi tramite l’andamento del verso, sempre modellato sull’endecasillabo e quindi tendente al discorso ampio e articolato (non prosastico, si badi), fa piazza pulita di una poesia avviluppata su sé stessa, recupera un’idea di letteratura che (Sciascia docet) assume un atteggiamento sempre critico e agonico nei confronti d’una realtà guardata con ferma ostinazione e senza indulgenza.

La storia, i ricordi

I.

A volo poi trascorse il tempo, rotolo
da una discesa dell’infanzia, ottanta
volte o più, nella luce del tramonto,
accesa in un richiamo che ci accoglie.

Forse perché non conosco i miei nonni,
le nonne sono il “senza” del pudore
che i genitori avrebbero occultato,
ma so che Guerra è brutta, con distacco.

Questi li chiamo ricordi, nel freddo
degli anni, c’era l’Ucraina, l’Ucraina
c’è, il gas nella rete, nel contatto,

c’era un giocare che era già ricordo
e poi il futuro che s’immaginava.
Tuttora vivo il brivido che vaga,

ma nel solo passato che conosco.
L’atomo sterminava la paura
del collasso, la parola scissione
ogni tanto emergeva dallo schermo,

ma la paura era sì quello scandalo
che è, l’occidente era già formato.
Mentre rubavamo in un tabacchino
il pacchetto ci esplose tra le mani,

imparai così la colpa e il destino,
l’allarme del benessere e il possesso.
Un’altra volta furono dei cani

a inseguirci e non potemmo fermarci,
perché oltre il cancello, nel vialetto,
i ciottoli saltavano e la corsa

sempre più necessaria diventò
un vortice e sempre più accelerando
ci riconoscevamo negli scoppi,
in un moto cieco, nella vertigine.

(pagg. 13 e 14)

Si noti il fatto che Gianluca appartiene a una generazione d’Italiani che ha sentito parlare della guerra in famiglia, una generazione figlia di genitori nati durante il conflitto o poco tempo dopo la sua fine, per cui sono i nonni e le nonne (e la cosa è detta con lo stesso pudore che il poeta attribuisce ai propri genitori) coloro che esperirono la guerra, conservandone la memoria da tramandare, per via orale, a figli e nipoti; l’Ucraina viene a essere così nome geografico e distante dove accaddero le migliaia di morti dell’ARMIR in ritirata, presente però nella vita quotidiana perché da lì giunge il gas nelle nostre abitazioni: ecco, voglio far risaltare questa tecnica di rappresentazione poetica efficace e ricorrente nel libro, per cui D’Andrea accosta, dello stesso fatto, due aspetti (l’uno lontano nel tempo e nello spazio e l’altro vicino), saldando, appunto ciò che l’io lirico esperisce direttamente (a distanza ravvicinata) con quello che, invece, inserisce lo stesso io lirico entro una dimensione molto più ampia e collettiva e profonda. E poi c’è un corrispondersi tra la macrostoria (l’Occidente capitalista, la minaccia atomica) e la microstoria dei ragazzini (il furto dal tabaccaio e l’esplosione del pacchetto, poi la fuga affannatissima dai cani) in un interessante ed efficace accelerare delle immagini che trasmettono l’esplosiva energia di chi è all’inizio del proprio esistere e si affaccia a conoscere la vita e il mondo. Gli endecasillabi, strutturati poi in quartine e in terzine, sono un’altra sfida che il poeta pone a sé stesso, dal momento che egli deve rispettare sillabe e accenti, ma per raccontare e rappresentare quell’energia vitale che, infatti, trova modo d’espressione nei cambi di verso e negli enjambements, in immagini nervose e dinamiche.

II.

(…)

La vita è anche il richiamo, cortili
di voci, le partite tra bambini,

le altre voci rientrando nella casa,
avvolto nel calore, le gommine
nella stanza, luce bassa in cucina,

suoni e voci dagli schermi, gli accenti
che cambiano nel tempo e sono scia.
Per vederli, prima e dopo, li sogno.

(pag. 15)

Chi si è oggi scaturisce anche dal bambino che si è stati ieri, per cui questo passaggio del libro offre non direi dei ricordi, ma una serie di meditazioni e di assunzione di consapevolezza circa i ricordi. E (lo scrivo quale apprezzamento) manca l’indulgere alla nostalgia o alla trasfigurazione memoriale, ci sono, invece, una saldezza e chiarezza di visione capaci di descrivere Messina come segue:

III.

Il pettirosso e il piccione spartivano
i quadrati di spazio nel cortile.
Il cibo sono le tovaglie scosse,
l’aria riposta e tutte quelle briciole

che volano, mentre un tanfo da sud
mi ricorda la strada dei rifiuti,
il loro essere raccolti in sacchi,
incubati, prodotti, mai smaltiti.

Dal mare, poi, la brezza arriva dolce,
sul viso la carezza si trasforma,
da dietro, come un impaccio, colpiva

il libeccio e il respiro, diventando
lezzo, poteva adesso riportare
il messaggio lontano della fogna

che, muta e pregna, vomita nel mare.

(pag. 16)

Il leitmotiv dell’odore e degli odori caratterizza, vedremo, molti luoghi di Transito all’ombra, presenze materiali e corporali di un organismo-mondo articolato nelle sue bellezze e anche nelle sue immonde deiezioni.
A seguire ecco, di nuovo, la giuntura tra macrostoria (ma ancora, data la giovane età dell’io lirico protagonista di questo passaggio del poemetto, poco compresa) e storia personale, con quella presenza della televisione che coglie bene anche il farsi di una generazione, per la quale “suoni e voci dagli schermi” hanno permeato immaginario ed esperienze:

IV.

(…)
Sentivo dire di Franco, in Sicilia
il Tirreno era il mare dell’infanzia,
non sapevo di Ustica, la Spagna,
però, mi dava gioia, quei mondiali,
disprezzo alla parola dittatura.
La tv degli anni ottanta tentò
di rubarci la memoria, riuscendo
a cancellare con velocità
ogni appiglio, distanziando in un limbo
di benessere le generazioni.
Acini in un grappolo, carrellate
ricolme, gli individui al loro fondo,
tutti impegnati, da bolle, a sognare
il proprio mondo. C’era molto sole,
aspettavamo le vacanze estive,
captavamo i messaggi apocalittici
ma mai come segni d’appartenenza,
semmai come un ricordo già avvenuto,
ognuno poi scappava e nella corsa
ogni atomo era un rendiconto.

(…)

Così giocavamo
a nascondino nell’erba e l’odore
acerbo del sudore a quell’età
si mischiava alla terra, per non dire
del mare incanalatosi in collina,
oltre quella fiumara, nello spiazzo
in cui trovavi i vermi nelle tasche
e non le mani. Poi le figurine
con cui sfidare i compagni, i cartoni
da cui apprendere lo sport e l’amore,
mentre il gioco già mutava in clangore,
(…)

(pagg. 17 e 18)

Tengo moltissimo a far notare la sicurezza e la saldezza con cui l’autore costruisce il testo, riuscendo così a prendere la necessaria e giusta distanza dalla materia autobiografica e modulando un tono meditativo che porta la scrittura poetica a farsi strumento conoscitivo sia per efficacia di pensiero meditante che d’espressione linguistica; Transito all’ombra è un attraversare quelle regioni (insidiose) in cui l’io dell’autore ambisce a diventarenoi, la storia individuale riconoscersi in quella collettiva – a tal proposito i versi (la tivù tentò di) “rubarci la memoria, riuscendo / a cancellare con velocità / ogni appiglio, distanziando in un limbo / di benessere le generazioni” sono emblematici della scelta fatta da Gianluca di riflettere, in poesia, sul tema del tempo storico e del rapporto tra le generazioni, ma anche la sua volontà d’esprimere un giudizio storico e culturale.
Poi, dopo il racconto dell’infanzia, ecco il passaggio del millennio:

VII.

Acquisimmo, assorbimmo, attraversammo
il passaggio del millennio e il livello
si ridusse in esplosioni nere,
i grattacieli, gli uccelli, figure
disegnate come rondini nel cielo cupo,
fissi a un dislivello in cui le frontiere
e gli impatti ebbero il dissapore
del dubbio. Da allora niente,
una scomparsa, idee allusive.

(pag. 24)

Il “rumore del tempo” si riflette, sempre più intenso e presente, nell’esperienza personale, la coscienza individuale si apre alla storia a essa contemporanea cercandone le relazioni, compiendo un preciso atto di presa intellettuale sugli avvenimenti, facendo, qui, della scrittura non solo il momento della rappresentazione della realtà storica, ma anche della sua critica, rivendicando alla poesia, dantescamente mi vien fatto di dire, quella sua capacità di tenere ben aperto lo sguardo sul reale senza però lasciarsene fagocitare o subordinare, ma, usando i ferri del mestiere, dire per immagini, ritmi, variazioni d’accenti, scelte lessicali lo stare della mente pensante e poetante dentro la storia del proprio tempo. Esempio concreto in cui critica della storia, della società e della cultura s’incontrano sono i versi che estrapolo qui a seguire:

VIII.

(…)

Avevamo cambiato le abitudini alimentari,
il lavoro non ci seguiva a letto
ed evitavamo i vecchi fogli.
Il ragazzino preferiva il lettore di e-book
per il viaggio, questione di comodità,
un’accensione da seicento tomi,
la memoria perdeva radiazione
ed energia.

(pagg. 26 e 27)

Ripetiamoci, scandendoli bene a noi stessi, gli ultimi due versi: “la memoria perdeva radiazione / ed energia” – ribadisco che la rappresentazione di una determinata situazione è sempre collegata a una riflessione, riflessione sostenuta e alimentata da una scelta etica e da una cultura che, nel caso di Gianluca, è vastissima e abbraccia moltissimi campi del sapere; non sorprende, allora, l’enfasi posta sul ruolo della memoria né quella persuasiva metafora tratta dal mondo della fisica subatomica (radiazione ed energia) che esprime il cruccio e la preoccupazione di chi constata il “decadimento” della memoria, il suo trasformarsi in un immenso, indefinito archivio compulsabile “in rete” o, appunto, nella “memoria” di un dispositivo elettronico, ma non più preservata, coltivata e accresciuta dentro la mente umana. È chiara infatti l’idea sottesa all’intero poemetto: la vigilanza della mente è tutt’uno con la memoria, ma la memoria (individuale e collettiva) non è nostalgica contemplazione del passato, è, invece, lucida presa di coscienza sul passato e sul presente, incessante attività di riflessione dal passato al presente e viceversa, medium il linguaggio della poesia. E infatti:

IX.

Finì la storia, iperbole quarantennale
di generazioni, micromode, subculture
infiocchettate ogni dieci anni, sfumate
in pura scia, ogni giorno, spuma.
Si moltiplicarono i canali,
le vicende, strali spuntati,
puntate in serie, episodi senza trama.
Il frammento punzecchiava gli occhi
e lo stomaco e dava la nausea.

(pag. 28)

Il “frammento” è l’evidenziarsi e il farsi di un processo che al poeta appare negativo e, in tal senso, Transito all’ombra non è disgiunto dalla riflessione radicale avviata da Pound con i Cantos e da Eliot con La terra desolata, continuata in Italia da Pasolini con Trasumanar e organizzar e da Roberto Roversi con L’Italia sepolta dalla neve, da Elio Pagliarani con La ragazza Carla (ma non solo, ovviamente), e intendo riferirmi alla volontà di alcuni autori di confrontarsi con l’estrema complessità del mondo contemporaneo, che sembra davvero esplodere in migliaia e migliaia d’inafferrabili frammenti, sfuggendo a ogni tentativo di rappresentazione, eppure tale volontà poetica e poietica tende a dar vita a nuove idee e realizzazioni di poema, a una predilezione per la “forma lunga” che, nella sua difficile, insidiosa articolazione, sembra meglio corrispondere alla necessità di restituire all’architettura del testo il proprio ruolo. E Gianluca sente il bisogno di un’elencazione che incroci continuamente i due piani (memoria individuale e memoria collettiva) (mi sembra dantesca e poundiana questa scelta, pasoliniana e sereniana):

X.

Aprivano e chiudevano le frontiere,
tutti in fuga sul brusio con altri fascismi.
Il ricordo era una marea deflagrata,
dalle miserie di un dopoguerra fisso
al respiro del paesaggio,
ai pic-nic sul divano davanti ai programmi
grossi, alle immemori tribune elettorali.
Nessuna medaglia olimpica, nonostante
Alberto Cova, Panetta, le siepi d’oro
di una rincorsa ad anello
capovolto, nel doppio e triplo giro
delle comete da orbite ripetenti.
Le cosce delle ragazze, la scuola,
il subbuteo e la compilazione
dei tornei, generazione borghese
d’almanacco, il primo pompino
e la leccatina. Poi arrivò il disgelo,
Tarantino alla marijuana, ricetta
di fine millennio e inizio di altre lotte.
(…)
(…) a Ustica
lo scandalo annegato dell’ultima
guerra fredda. Tanto i focolai
impazzano, s’inventano e furono
torri a lasciarsi sgretolare nel riflesso
radiale e parabolico. Nel focus
miliardi d’impatti per giustificare
un altro scempio nero, infine
lo schermo spento.

(pagg. 30 e 31)

Si noti ancora la presenza dello “schermo”, ché in Transito all’ombra emerge quest’interessante confrontarsi da parte della scrittura poetica con lo strumento potentissimo della televisione (ma, direi, ormai anche del computer e dei vari tipi di dispositivi portatili), per cui il poeta messinese è pienamente consapevole del ruolo decisivo svolto dallo “schermo”, luogo contemporaneo del fare cultura (in qualunque modo quest’ultima venga intesa) e, comunque, in grado di cambiare in maniera profonda e radicale la nostra percezione del mondo e di noi stessi.

XI.

Eccidio, omofobia, femminicidio,
propaggini patriarcali,
benvenute effrazioni del dolore
sempre procrastinabili le scelte,
ogni bar-italia sventola le sue bandiere.
Platini, Baggio, Del Piero, Zidane,
la classe estinta in testate esiziali,
chiacchiere esorbitanti, nausea.
Ogni fatto morto, ogni effetto
estorto. Il dato certo risorto
in un battito irreperibile,
aquile bianche beccano lo zolfo
e il pietrisco dei Balcani;
silenzio d’Europa e connivenza
aprivano faglie tossiche e incoerenze afghane
confezionate a triplo strato
con pascoli di capre, markor, argali
a testimoniare l’indifferenza e l’impotenza
dei complotti. Piangevamo
il distanziamento intellettuale,
l’alibi e l’annientamento telecomandato
di ras afroasiatici.
Il seguito fu un’origine fragorosa
di acronimi e sintesi verbali,
geroglifici, emoticon, messaggi
connessi in una trama arcipelago.
Bottiglie da un territorio archiviabile

(pagg. 32 e 33).

Al termine della lettura dell’undicesimo testo si ha definitiva conferma non solo dell’attenzione minuziosa del poeta per la storia a lui contemporanea, ma anche della sua convinzione che la scrittura non possa essere separata dalla propria contemporaneità e, specificherei qui, Transito all’ombra è, contemporaneamente, libro in sé concluso e tappa di un percorso a lungo termine lungo il quale Gianluca intende mettere in atto la sua idea di poesia estremamente attenta agli accadimenti, impavida perché non teme di sporcarsi con le cose e con i fatti: per appartenenza generazionale e formazione culturale D’Andrea sa bene che deve fare i conti con l’eredità del Novecento e nello stesso tempo con la necessaria ricerca di un modo di fare poesia dentro un evolversi storico mutato e continuamente mutante rispetto al secolo breve; per questo quella di Transito all’ombra è una scommessa o un salto senza rete di protezione o un esperimento generoso e coraggioso – e scrivendo “esperimento” ho nella mente il verbo francese “essayer”, che vale “saggiare, scandagliare, provare” e anche “tentare” senza garanzie di successo, ma è questo, secondo me, uno dei meriti maggiori del libro (per questo parlavo di coraggio e di generosità), visto che la poesia del poeta messinese abbandona in maniera risoluta il porto sicuro di stilemi, temi e immagini collaudati.

La seconda sezione (Dittico) è, in maniera del tutto coerente e consequenziale, una riflessione sull’identità del poeta, questione molto avvertita da Gianluca il quale appartiene a quella schiera di poeti convinta che il problema della responsabilità della scrittura non vada eluso (malgrado la smaccata marginalizzazione della poesia) e che il poeta stesso, in quanto persona-che-scrive, sia eticamente obbligato a interrogarsi su sé stesso e sul rapporto tra l’io, la scrittura e il mondo. Ecco com’è strutturato il dittico, posto non a caso tra il poemetto appena attraversato dalla nostra lettura e la successiva sezione:

Trasposizione (o l’identità del poeta)

Il fatto di essere non sussiste
esiste l’essere come un fatto
del sentire. Allora io sarà il nucleo
per cui posso essere me stesso,
non il triciclo abbandonato in strada
accanto ai bidoni ustionati.
Mia figlia pedala.
Io è le mutande del ragazzo
al semaforo che vende accendini.
Dopo un giorno di lavoro
brucio i fazzoletti abusivi
e raccolgo parole da uno schermo,
ustionato da tutti i contatti.

(pag. 37)

L’identità (o trasposizione del poeta)

Sentiva di spostarsi e accadimenti
intercedevano per lui che si spostava,
sospinto dalla piena presenza
di se stesso. Impercettibilmente
ad agire era un moto secondario,
che diventava consistente e si perdeva.
Camminava pienamente.
Si alternava in tutto il movimento
la sensazione vera di non essere
se non se stesso in contatto perenne,
come accade nelle passerelle
agli aeroporti dopo un giorno
in piedi a calpestare i propri passi.

(pag. 38)

Direi che nei due testi viene messo in atto il tentativo di oggettivare (distanziare da sé, analizzare in modo freddo e rigoroso, anche impietoso) la questione; la scrittura di Gianluca è estremamente colta e avvertita (e questo è, per me, sempre un valore determinante e discriminante rispetto a tantissima letteratura – non credo nella poesia “istintiva” o “spontanea”, men che meno oggi, quando gli accadimenti e la realtà stessa pretendono da noi una presenza lucida e critica, avvertita e informata, non certo più o meno falsamente ingenua); accade così che, senza indulgere a una sorta di metapoesia (poesia su che cosa sia la poesia o come si faccia poesia), il Dittico, cogliendo la lezione di un poeta che so fondamentale per Gianluca, Bartolo Cattafi, si soffermi in queste poche pagine-cerniera sulla problematica del poeta in quanto io-vivente e in quanto io-scrittore (l’ego scriptor di poundiana memoria, appunto, ma anche quell’io su cui puntigliosamente s’interrogava Pasolini), portando a livello di coscienza il fatto che l’io possa essere e altro dagli oggetti (che può osservare con distacco) e tra gli oggetti immerso (subendone la presenza, le interrelazioni e da tutto questo venendo modificato); altro dato è l’ineludibilità dell’esperienza e della storia personali: in tal modo Gianluca mi sembra accettare il fatto che in poesia possano agire persone e possano essere rappresentati fatti legati alla biografia dell’autore, a condizione che questo sia il punto di partenza e non di arrivo.

Dalla terza sezione, Immagini, i ricordi, andiamo ora a leggere

La resa

Sul viso queste linee perfette
che la luce bagna appena.

Linee dall’alto che sfaldano la luce
ricadendo sulla bambina che dorme,
sui lineamenti dritti, dolci, verticali;

il viso della bambina è diverso
cambia come il giorno
come ogni giorno cambia
per somigliare a se stessa, diversa,
al diverso che cederà nel nulla
che già l’accompagna, rendendo
possibile la sua presenza attuale,
eterna.

Sul viso quelle linee perfette
ogni giorno perfette nella loro incoerenza
col perfetto che è sempre visione.

La visione è qualcosa che si arrende;
ancora, ogni tanto, combatto
con la mia resa,

la lingua diventa l’eco di un campo,
una lancia sospesa nel lancio,
non cade, salta.

La resa non ha obiettivi,
non sa definirsi, si bagna appena
rendendo.

(pagg. 43 e 44)

Che cosa fa in questo testo l’autore siciliano se non, apparentemente scrivendo di sua figlia e della commossa contemplazione di lei da parte del padre, trasmettere in modo efficace il farsi della poesia? Si tratta di una luce che percorre e visualizza il cambiamento continuo, incessante del reale, per cui, paradossalmente e inaspettatamente, l’atto della poesia è una resa e la constatazione di tale resa, non nel senso che la poesia rinunci al suo grimaldello indagatore e conoscitivo, ma nel senso che proprio per continuare a essere presente a sé e al mondo essa deve arrendersi al fatto di essere un’eco della realtà – ma l’eco è anche un accrescimento o una risonanza del paesaggio e degli oggetti in esso presenti, una sorta di sonar o scandaglio che, secondo il principio di Heisenberg, non ci consentirà di conoscere in toto la realtà, ma che, comunque, ce ne restituirà una mappa di relazioni e di interrelazioni, una raffigurazione in continuo movimento, in costante transito.
In tal senso è significativo un altro testo, il cui pre-testo è una visita all’Acquario di Genova:

Acquario

Passano le figure, inseguono gli eventi.
Ombre, i bambini trascorrono
in gesti, in un piede piegato o i passi.
Gli uomini impiegano il tempo
in frazioni strutturate,
il movimento ha passioni e dolori
e quadri che si aprono a brusii,
flussi trapassati, sorprese
negli scorci, membrane che respirano
le azioni compiute;
la giustizia si sposta nello stesso
luogo, si sgrana in tempi impercettibili.

(pag. 47)

Molto interessante è che, anche qui, al di là dell’apparente referto di una scena usuale (la gita all’acquario), ci sia la riuscita messa in atto tramite la scrittura di una visione del reale che, secondo le più aggiornate interpretazioni fisico-matematiche, è strutturato in quanti che si muovono entro campi di energia, per cui la realtà quale appare ai nostri sensi (e lo si diceva poc’anzi) è frutto di relazioni in perpetuo mutamento, e sia il ritmo interno ai versi, sia le immagini presenti nel testo (si tratta delle vasche trasparenti dell’acquario pullulanti di forme di vita subacquee) sanno con efficacia restituire queste visioni marezzate e mai ferme che provengono dalla realtà che circonda l’io.
Treviglio (la città in cui l’autore vive e lavora) e la Sicilia costituiscono due poli geografici del libro, anche se, vedremo presto, una delle prossime sezioni è dedicata a un andare nomade per alcuni luoghi d’Italia; eccola, la Sicilia, durante uno dei periodici ritorni estivi:

Il fuoco (ritorno in Sicilia)

Camminiamo tra muri con addosso
le vicende di storie impossedute,
i ricordi si accendono in istanti
che dileguano dopo alcuni passi.
Sento i silenzi di questi terreni,
i campi bruciano in luce e miraggi,
nessuna ombra proietta da persone,
ombre stesse, fantoccini, memorie
di spari e micce ad attentare. Facce
mai nelle ombre incolte a ciondolare
tra filari non identificati.
Un passo avanti ancora nel frascame
e si accendono ricordi e passioni,
sogni, sale, in consistenza del fuoco.

(pag. 49)

Interessantissima, poi, la sequenza Trasporto stallatico in 3 movimenti, anche perché offre un esempio particolarmente riuscito d’una scrittura ch’espone volutamente sé stessa al rischio del passo falso, della caduta di tono o di gusto, e che, in maniera del tutto moderna e originale, tematizza la presenza del corpo, e dice di come il corpo, talvolta dimenticato, richiami l’attenzione della mente riconducendola al legame primordiale con il bisogno fisiologico, l’istintualità e la terra:

O corpo glorioso, qualche santo
dovrebbe provare amore per la
tua merda.

P. Valéry

I

Quel giorno in quel luogo
desideravo la sosta,
la città si misurava negli spostamenti.

II

Arrivò nel mezzo inaspettato
l’odore primordiale.
Bisogno dell’essere in stallo,
l’essenza inventata,
dall’uomo e il profluvio della locomozione.

III

Il bisogno sull’autobus
che portava a Porta Garibaldi,
con la soglia antica dell’escremento
esposta alla corrente.
Annusai la presenza
improvvisa, l’alterità
ferace differiva per fermare
lo spostamento
e invase la dimensione
attraente della meta.

(pag. 54)

Il basso e l’alto si richiamano a vicenda, così come il volgare e il sublime, ancora di nuovo secondo il magistero dantesco, ancora di nuovo secondo un percorrere (un “transitare”) tutti gli stadi dell’esistere, ognuno di essi degno perché appartenente all’umano (si pensi alla ricerca di un artista come Anselm Kiefer):

Nuvole sopra l’odore d’altezza (contraltare dinamico)

Che può volere questa massa informe?

V. Majakovskij

Nuvole sopra l’odore d’altezza,
stavolta è la mia vista
a scegliere nel campo
o erba o patate analogiche.

Tutta quest’immaginazione ferve
per desiderio di ritorno a quel luogo –
sia casa, odore, raccolto, riposo,
non si accontenta di nubi dall’alto.

Sensetti magici che colgono
dal mondo circostanze – sentore –
l’anelito di quello interiore.

Sentimento – parola rovinata
che ributti le altezze aeree
e le trasformi in grumi bianchi,
in pallottole di gas da cui spuntano
forme spumeggianti, pulite.

(pag. 55)

E il titolo mandel’štamiano del componimento a seguire introduce a un altro testo in cui l’odore è presenza alla mente di un’identità (in parallelo, si potrebbe seguire il tema dell’odore traverso le tre cantiche della Comedìa):

Epoca

Ancora il ricordo di bambini, ancora Beslan,
tra l’Ossezia e il Canale di Sicilia nessuno spazio.
Il tempo marcisce sugli odori delle stesse tombe,
mentre i volti vivono in altri volti riflessi sugli schermi.
Questi corpi oscillano tra le onde, nel sole,
in questa primavera estiva, tra due continenti-gemelli,
che rischiano il contagio dopo essere stati adottati
da famiglie diverse, con diverse sventure.
Eppure uguali nella stessa indifferenza
che il terrore e milioni di ore
ribattono sul sangue della terra
in un solo mondo gravido di nascite
e di altre ore.

(pag. 56)

La successiva sezione (Era nel racconto) trova nella scuola e nella sua quotidianità uno dei suoi cardini; propongo il testo seguente quale esemplare dell’impiego della scrittura per dare forma ed espressione verbale a momenti della giornata francamente poco confortanti; il centro del componimento e il colpo d’ala che riscatta anche la frustrazione sia personale che professionale sono i versi 8-10, i quali sono pure capaci di giustificare la dedizione alla scrittura, oltre che alla professione d’insegnante: in questi versi s’esplica la dignità della persona e la sua forza etica le quali s’oppongono risolute all’umiliazione di cui sono spesso vittime i lavoratori (qui si tratta di quelli della scuola, ma la cosa si potrebbe estendere ad altri campi professionali):

Concorso (e alla fine, la fine del mondo)

Il plesso, è ancora buio, non rispecchia
l’idea che ho di Einstein, ma l’idea
è marginale, il concorso è marginale,
Vimercate è marginale.
Vivo alcune ore in compagnia
di docenti scalcagnati, come me,
e aspiranti tali.
Ricordo
la possibilità di relazione e le persone conosciute,
i ragazzi e i fantasmi dei ragazzi.
La fine del mondo giunge di continuo,
è l’attesa perenne, quotidiana,
è Vimercate, Zingonia, Treviglio,
Messina, tutto ciò che c’è tra loro,
oltre loro.

(pag. 60)

E successivamente nella Luce nei viaggi (pag. 61) il poeta scriverà in chiusura del componimento: “(…) / i viaggi sono dimore e luoghi in cui scentrarsi, / efficaci nella loro continuità e rapidità, nella loro incertezza” – troviamo qui una delle motivazioni del titolo del libro, evidentemente.
La piccola Sofia, la figlia del poeta, è il legame vivo anche a livello carnale con il presente – e con il futuro; non è allora difficile riconoscere nelle parole rivolte a Sofia una sorta di dichiarazione di “poetica” esistenziale e letteraria:

Lettera a mia figlia

Cara piccola Sofia,
non c’è mondo che si apre
oltre la tua possibilità di vedere,
per questo osserva tanto,
comprendi i tuoi confini,
ciò che senti ricordalo perché ti aiuti
quando continuerai a scoprire sola
la tua voglia di scoprire.
Non ascoltare chi dirà che nulla
è questa fine, perché sarà la fine.
I tuoi giochi e la ricerca
di un consenso sono l’umanità
che è sola nell’individuo, corale
nella necessità.
Tutti siamo piccoli, Sofia,
e abbiamo poco o niente da dire,
eppure questo fiato, così buffo,
è il dovere che ci unisce e dissolve.

(pag. 63)

Non so se Sofia sia una sorta di Beatrice per Gianluca, ma certamente proprio la bambina e anche la moglie dell’autore costituiscono due presenze femminili che l’accompagnano in questa sua andanza traverso l’Italia e anche oltre confine, disegnandosi all’interno di scenari urbani e animandoli o contrapponendovisi, stabilendo così un legame affettivo tra il poeta che osserva e il luogo osservato, ma anche tra il poeta che osserva e le persone osservate, ché molto spesso al centro dei componimenti sono proprio le persone, il loro muoversi, parlare, agire e interagire.
Il poemetto Gli alberi, i ragazzi continua infatti e dilata una tale riflessione, ritornando inoltre sul tema della scuola e del rapporto tra insegnante e allievi (molto, molto a malincuore ne taglio dei passaggi, esso andrebbe letto nella sua interezza); non a caso la scuola (vi ho già accennato), i suoi ragazzi, le realtà personali con cui l’insegnante è chiamato a confrontarsi costituiscono un altro argine, bello e commovente, fondante e di valore del libro (e mi si perdoni, se possibile, il giudizio, lo so, estetizzante, ma credo che la bellezza, in questo lavoro, non sia un risultato da contemplare e di cui compiacersi, bensì un accadere e un processo in fieri, derivato proprio dalla scelta etica dell’autore, dal suo dialogare con le persone, con gli allievi, con la realtà); e in questo frangente mi piace riflettere su come Gianluca D’Andrea coniughi, a mio parere, le risultanze della cosiddetta “linea lombarda” con quella “borbonica”, anche vivendo nella propria biografia l’allontanamento dall’amatissima Sicilia e il convinto impegno didattico in una Lombardia che continua a essere meta d’ininterrotta immigrazione intellettuale dal Sud d’Italia: lo slancio verso il sogno e il fantastico si armonizza con il senso della realtà e della storia, l’aspetto diurno con quello notturno (proprio sette notturni chiudono il libro, vedremo). C’è una coscienza civile e politica ben vigile dalla prima all’ultima pagina, un’indomabile consapevolezza e non si dimentichi che l’intero libro si snoda nel segno dell’esergo di Mandel’štam il quale trova spesso puntuali contrappunti nelle citazioni da altri autori.

Li fogghi si stracàncianu p’amuri:
pàrunu argentu e mànnanu spisiddi.

Pasquale Salvatore

Le schegge che da questo sopravvivere
appaiono scomparendo nello schermo,
nei display sempre accesi in cui gli occhi
dei ragazzi sono immersi
come radici in un campo.
Un mondo germogliante e marginale
che resta apparizione al desiderio
di un’apparizione. Dove il contatto
è un panorama collaterale
il futuro insegue esempi,
vene che provano la strada al tronco,
al fiume in cui convergono correnti
educate da altre correnti.
Un circuito esatto, smisurato,
un organismo che suscita il miracolo composto
in una figura, nella sua parola.

In una scuola di un quartiere suburbano,
dove basso è lo scarto che separa
i riflessi e il vero che la realtà concede,
mi sorprendono mille vicende,
eventi fondanti, si diceva una volta,
emergenze che si fissano nella memoria.
Dai gesti alle urla nella classe il gioco,

gli insulti e le mani dipendenti da qualcosa di più ampio –
rami che si incrociano e uomini che abbandonano
i nodi a cui si avvolgono –
gli sputi di una ragazza ancora bambina
è la linfa di cui nutro la mia sopravvivenza.
I germogli della strada rastrellati in una rete
sondabile, nenia inconsapevole
che affonda in questo luogo
di forte agnizione.

(…)

Gli oggetti sono insieme all’uomo,
lo attraggono, lo sferzano, continuano
la loro funzione protesica,
eppure brilla altro sulla superficie,
è la vita nelle relazioni che i viventi
utilizzano con i loro strumenti.
I ragazzi non lo sanno,
li distruggono,
introiettandone la fine.

(…)

Alcuni frutti maturano, le generazioni
si manifestano in curve e pieghe,
simulo un’altra vita, mi adopero per allontanare
la consapevolezza di morire –
mi lascio trascinare da un cosmo
che si dissolve nell’evidenza
di essere dissolto.
L’albero ravviva i suoi colori,
cosmesi, radice –
le ragazze mascherano l’entropia,
l’abbandono radicale che le genera,
candidamente, la sofferenza
di una famiglia disintegrata
da un habitus d’origine, ecco il trucco:
si assottigliano al sistema e aderiscono
agli eventi fino a fuggire dentro schermi
che oscurano nuove affezioni, o nuove agnizioni.

(…)

Dai ragazzi una richiesta, ma riappare la necessità
e la risposta rimane un miraggio.
Loro fuggono nel loro universo, il mondo
è ricco di aperture e membrane,
i nostri universi si divorano, tangenti
o assiderati dal contatto fino a che appare
una scia che ti forza nei quartieri,
ai margini semivivi o in simbiosi con la morte.

(…)

L’eventualità di un lavoro o, remoto,
un percorso di studi.
In questi desideri e nello sconforto,
si avvolgono i racconti dei piccoli eroi,
raccolti alle radici, intrecciati
al fermento, alla rinascita.

(pagg. 64 – 68)

Amo davvero molto, in questo libro, gli slanci intellettuali ed etici di cui la scrittura dell’autore messinese è capace, perché si tratta di una maniera di scrivere che vuole, in tempi barbari e rassegnati, riaffermare la necessità di un empito generoso e totalmente umano – non voglio essere banale, ma il pessimismo della ragione e l’ottimismo della volontà di gramsciana ascendenza trovano ora una possibile manifestazione in poesia, facendo della scrittura anche un fatto politico, vale a dire quel riflettere e persino quel cantare, dentro la polis contemporanea, per le vittime e i deboli, contro gli atti mostruosi dei responsabili della violenza, dell’emarginazione, dello sfruttamento.

Efficace risulta, così, la metafora delle Zone recintate come s’intitola la parte successiva del libro, ancora una volta una polis antiumana e concentrazionaria, ma abitata da menti che praticano il pensiero e la parola:

II.

Non è perfetta la resa,
è il paradiso del resto
una visione spalancata
sull’essere noi
e il desiderio di non esserci.
Prendi il pensiero che si svolge
e riflette atrocità di passaggio,
a volte improvvisa una traccia,
un buco di raccapriccio
che si allarga in un movimento
e cade rapido, immaginifico,
un gravitone nel suo attraversamento.

(pag. 72)

Bellissimo il titolo del poemetto Braccare lo spazio, Giotto nel quale in una serie di testi sia in prosa che in versi Gianluca racconta di un viaggio familiare che tocca diversi luoghi d’Italia e che avrebbe dovuto culminare in una visita (mancata per una banalissima ragione) a quel vertice d’arte e di pensiero ch’è la Cappella degli Scrovegni; l’aspetto interessante è che i minuscoli fatti del viaggio, anche quelli apparentemente privi di bellezza o di dignità memoriale, accadono nel segno di un tale desiderio di bellezza:

Questo gioco, quello della verità, ha come regola che il distinto, il determinato, il separato – l’individuo, la coscienza, il cucito, il punto a filo doppio – non si distingua più nel chiaro intrico del merletto, il quale, anch’esso, si mescola ai velluti o alla seta che orna e che ne sono lo sfondo.

Jean-Luc Nancy

Sono state vacanze rapide ma intense quelle di Pasqua 2015. La micro-famiglia in 5 giorni è stata in 4 città. Nonostante le monellerie della piccola o, anzi, accompagnati dal ritmo, a volte estenuante ma vitale, del “teatro” educativo che si modifica tentando sempre nuovi approcci per diventare efficace, abbiamo braccato lo spazio, frazionando il tempo.
Istantanee e parole hanno fissato alcune sensazioni, ancorato il flusso, riportandolo al passato, rilanciando il futuro – come si diceva una volta – disturbando l’eterno presente.
Mi piace condividere con voi immagini e versi perché si fondono in un unico metodo che salvaguarda lo “spazio” (il mondo, se volete) soffermandosi, solo per istanti è vero, sulla sua implacabile trasformazione.
Restiamo all’erta, la caccia e il desiderio sono la spinta per captare e “proteggere” la mutevolezza.

(pagg. 76 e 77)

Il breve poema in prosa che racconta della mancata visita alla Cappella degli Scrovegni, di conseguenza del mancato omaggio che pure il poeta siciliano ardentemente desiderava rendere al grande pittore fiorentino, ai miei occhi assume la valenza di un ulteriore richiamo anche a Dante, e intendo dire che il testo di Gianluca mi sembra essere un umile e perciò stesso tanto più nobile e originale modo di riconoscere l’inattingibilità per noi epigoni della grandezza dei due Maestri, grandezza cui, però, continuiamo a ispirarci e che cerchiamo, seppur in minima parte date le nostre forze, di travasare nei nostri lavori – ché la scrittura stessa è un ininterrotto transitare e l’ombra è la presenza costante della morte dentro l’esistenza individuale e della violenza dentro la storia collettiva, il margine di buio irrisolto che s’annida nelle nostre vite, ma anche quella gettata su di noi appunto dai grandi, nel cui “cono” ci nutriamo e cresciamo.

VIII. Perugia (sud?)

Sprofondava dentro se stessa
proprio quando arrampicarsi
fu più comodo. Scale mobili
(italiche?) conducono nel cuore
di Paolo III – quello di Tiziano
sprofondato a Napoli. Sempre
in profondo, Rocca Paolina riemerge
da viscere etrusche in vesti pontificie,
in versi lucchesi. I giardini ottocenteschi,
però, sconfinano in un panorama
rupestre; edifici fanno capolino
dalla storia, come funghi indigeribili.
Noi passiamo – Corso Vannucci, il Perugino,
Via dei Priori – e sbuchiamo, lontani
nelle ere, davanti ai gesti tipici.
Mia figlia, in piedi, gioca
con i suoi impulsi, scommettendoli
su uno schermo microscopico.

(pag. 83)

A questo punto (non voglio stabilire un’eventuale filiazione o derivazione o subordinazione del lavoro del poeta siciliano da e a modelli preesistenti, ma dire, propriamente, di un alveo fecondo e stimolante entro cui Transito all’ombra si colloca) a questo punto voglio sottolineare che, leggendo alcune pagine del libro, ci si sente accompagnati non solo da Dante, ma anche da Fabio Pusterla (Aprile 2006. Cartoline d’Italia), da Vittorio Sereni (L’Italia una sterminata domenica), da Franco Buffoni (penso, in particolare, a certe soluzioni e a certi temi contenuti in Roma), (Pusterla e Buffoni sono, inoltre, due persone che molto concretamente hanno seguito il farsi di Transito all’ombra), senza dimenticare le concomitanze dantesche con Luzi o con Zanzotto, né la ricerca intellettuale e di scrittura, perfettamente contemporanea al libro di Gianluca, di autori come Marco Giovenale o Giovanna Frene, interessati a un percorso attraverso l’Italia che è sia geografico che storico e sempre usando lo strumento acuminato, flessibile e inventivo del linguaggio.

In perfetta corrispondenza con la prima parte del libro, ecco ora un Altro dittico:

I.

(…)
Immagino pomeriggi nella stanza
di mia figlia, giocando disteso
sul lettone con lo stetoscopio
nell’orecchio. Gli auricolari trasmettevano
una scansione sconosciuta,
il battito è volgare, la musica
lenta che sconfina nel rumore
e la morte avvertita nelle pause.
Il suono ricomincia a punzecchiare
i sensi. Pregno d’inserzioni, sono
la sensualità che non avverto,
il sigillo del movimento intimo
e la mia firma un essere fluttuante
che si aggira frenetico per le stanze,
la forza centripeta, filiale.

(pag. 87)

II.

E l’abbracciai quella forza
che mi scosse, mutuando dall’inerzia
un fruscio, poi il tocco della pelle,
l’odore di luce liquida –
e la rosa? – che spegne tutti i sensi,
il fatto che i capelli sono brividi,
provocano delicatezze sensuali,
niente di casto ma un limite
che solo il pensiero – e la cultura? –
rende invalicabile.
(…)

(pag. 88)

Come ogni lettore può constatare, riemerge il tema del rapporto con il mondo attraverso i sensi, lo strutturarsi dei nostri processi psichici tra conscio e subconscio, con quell’affermarsi, forte e decisivo, del pensiero e della cultura i quali, mi sembra, costituiscono l’asse portante del libro.

Il notturno è genere musicale (e letterario) legato al concetto e alla pratica della riflessione; eccone alcuni dalla sezione conclusiva, Notturni, appunto:

II.

Il freddo taglia la luna,
notte di fine autunno
prima di un altro sguardo
alla bambina addormentata.
Le linee e la grazia
arrivano da molte zone.
Un film muto, la donna si addormenta
come svegliarla o avvicinarci al riposo?
La notte si addormenta in noi,
parlerò forse
della forza immaginifica nell’aria.
Il mondo può crollare.

(pag. 92)

III.

L’ambiente corre, poche
vicende, non vedo animali.
Il passato non vivente annienta
la nostalgia. Passano in tempo,
gli schermi e il controllo
dopo la vista, pochi contatti.
L’atmosfera impassibile
vibra nel cielo scabro.

(pag. 93)

IV.

(…)
La distanza è un presentimento
di protezione e cura.

(pag. 94)

VII.

Caldo nel buio il sapore
e la lontananza nell’immagine,
è sapere la violenza
e contaminare e inviare a niente.
La luce dietro la tenda
voci video, presenze tratte
mentre ci accampiamo nel semibuio.

(pag. 97)

Con questi versi termina Transito all’ombra, ma si noti come vi sia insita proprio un’impressione di transizione, di attesa e di passaggio al nuovo libro che sta maturando, anche grazie a quei luoghi riassuntivi, nel testo, dell’intero volume: “la lontananza nell’immagine”, “sapere la violenza”, “voci video”, “presenze”, “mentre ci accampiamo nel semibuio” – è quello che abbiamo letto finora, i concetti portanti della scrittura di Gianluca, in particolare quel “sapere la violenza” che esprime la coscienza piena di cui si fa veicolo la scrittura in versi e ancora una volta non posso non pensare alla lezione dantesca, visto che, a ben pensarci, il viaggio rappresentato nella Comedìa porta il poeta a contatto continuo con colpevoli o con vittime di violenza, visto che l’Inferno è il luogo in cui si raccolgono tutta la volgarità, l’offesa, lo stupro perpetrati da esseri umani su altri esseri umani e sul mondo, e che la scrittura possiede la capacità di misurarsi con l’inferno; e quello dantesco è un transitare per i tre regni ultramondani che non sono altro se non tre stadi, spesso compresenti, dell’esistere e della storia.

 

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Bartolo Cattafi: una poesia da “Le mosche del meriggio” (Mondadori, Milano 1958) – Postille ai testi

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Bartolo Cattafi a Messina, fotografato da Walter Mori per Epoca, 1972

di Gianluca D’Andrea

Bartolo Cattafi: una poesia da Le mosche del meriggio (1958)

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Il giorno dopo

L’autunno ha mari teneri, ha colori
che calme navi tagliano; cadranno
foglie e cieli sospesi per un filo.
Andare sino all’albero, sedersi,
entrare in confidenza con l’inizio
di radiche più avide e vive verso il basso.
Abbiamo accanto povere fredde cose,
bucce, bottiglie, frammenti di memoria,
più in là c’è il mare.
«L’ultima domenica», e ci trovi
ancora ansanti, il cuore
un poco stanco per la festa,
branco che più non fugge, prede
colorite dal ferro irto nel mondo
dal vino, dai fuochi solitari.
Ci vinse
questa striscia di fumo sulla terra,
fu sempre obliqua l’ombra
che ci seguí in silenzio.


Postilla:

Passaggio di sfumature e accenti perentori. Se l’andatura discorsiva dei primi versi – endecasillabi piani, “paesaggistici” – introduce le suggestioni autunnali di un incontro con la natura, la “tenerezza” della visione si accende quando lo sguardo dell’osservatore si abbassa alle radici («di radiche più avide e vive verso il basso») dell’essere, attivando la riflessione sul mutamento dei luoghi e, più precisamente, della disposizione delle “cose” nei luoghi. Quasi a metà componimento, l’indizio principale è l’accumulazione per asindeto, la triplicatio «bucce, bottiglie, frammenti di memoria», in cui gli ultimi pur appartenendo all’universo intimo del soggetto, non possono allontanarsi dall’abbraccio freddo dell’inanimato. Le radici della trasformazione si dirigono, allora, dal mondo ancora “naturalisticamente” presente nel corpo del soggetto all’allontanamento scissorio in un nuovo paesaggio, il «ferro irto» confitto «nel mondo».
La conclusione, altamente assertiva, non lascia scampo: «Ci vinse» – ancora il senso d’appartenenza a un comunità, la prima persona plurale avvolgente, per quanto sconfitta – qualcosa di indefinito che si insinua dal silenzio. Dal fumo, ancora percepibile dopo fuochi e macerie, all’ombra, la figura disorientata che vaga in “nuove selve”, senza possibilità di adattamento, senza punti saldi. Autunno, immagine obliqua, il giorno dopo.

NUOVI INIZI – IL DESIDERIO E LA SOSTA: “Abbonato al programma delle nuvole” di Giampaolo De Pietro, L’arcolaio, Forlì 2013

giampaolodepietro

Giampaolo De Pietro

NUOVI INIZI – IL DESIDERIO E LA SOSTA: Abbonato al programma delle nuvole di Giampaolo De Pietro, L’arcolaio, Forlì 2013

E se il canto sgorga autentico da un petto
gagliardo, alla fine si scolora,
svanisce tutto quanto, e solo restano
la vastità, le stelle ed il cantore.

Osip Mandel’štam

abbonatoalprogrammaEvocare, portare la voce fuori, ricordare che il contatto è la prima esigenza, il desiderio di costituire la relazione, il dialogo. L’implicazione anelante, la ricerca dell’aderenza all’alterità, scandiscono il terzo libro di Giampaolo De Pietro, autore catanese nato nel 1978 e redattore di Incerti editori, coraggioso progetto d’editoria indipendente.
Il divenire temporale, l’eternità sfuggente del fluire, caratterizzando la prima sezione di Abbonato al programma delle nuvole in negativo, sono i segnali di una forte aspirazione ideale, la percezione che la parola può riprodurre una tensione etica, proprio partendo dal desiderio:

Vorrei lavorare
sui piccoli rumori
del tempo, badando
ai piccoli rumori
di tempo, che registrerei
con un apparecchio specifico
Un antiorologio.

(p. 14)

Il movimento, in direzione di un miglioramento, origina dall’azione ipotetica e registra i mutamenti minimi, semplifica il dettato, come la poesia successiva sembra confermare con le sue movenze da filastrocca:

Non so che cosa
accade ai nostri discorsi
so solo che il tempo
sconsiglia sostanze
scompiglia forme
e forse lo spazio
assottigliandosi torna,
parola per parola.
Conto la vita
dito per dito,
o illudo
tratto per tratto
la mia stessa mano.
Ma il gesto è un altro
e un altro ancora,
e dello spazio
la traccia sola.

(p. 15)

La temporalità, percettibile negli infimi movimenti del reale, si lega all’alterità spaziale, in una sonorità che ricrea il contatto tra le due dimensioni, attraverso un gioco d’assonanze che costituiscono una nuova intonazione, un cantabile: «Ma il gesto è un altro/ e un altro ancora,/ e dello spazio/ la traccia sola» (Non so che cosa, p. 15, vv. 14-17).
Il legame vuole fissarsi, l’anelito di cui parlavamo all’inizio, infatti, traluce dalle scelte verbali, dall’azione del desiderio che tende a rafforzare l’unione:

Ancora

La foglia è del ramo
la notte lo sa bene si
tengono e reggono
ma viene la stagione
di mano e in mano lo
strettissimo bisogno
del legame s’ispessisce
e conta e rimane il
tempo ai respiri soltanto
il respiro nel tempo è aria.

(p. 21)

Le inarcature forti (si separano, per estendere la voce, anche i nessi semplici, ad esempio articolo/sostantivo) inducono un respiro che si sciampia nell’abbraccio del comunicare. Anche la disposizione dei testi manifesta la voglia progressiva del contatto, così «l’aria» che chiude la composizione, si trasforma nel «vento» di quella successiva: «Vento, la vita ci ripara/ poi ci piove addosso./ Piove spiove./ Vento spione» (Vento, la vita ci ripara, p. 22, vv. 1-4), per cui la diversificazione, il movimento nello spazio, porta alle oscillazioni dell’esistere che solo l’osservazione dei fenomeni fa percepire e che l’ironia del soggetto può contenere e tramandare, nel tentativo di difendere la propria stabilità – sempre precaria – perché immersa in contesti mutevoli.
Il reale, in questa poesia, può scatenare, oltre il movimento contenitivo, un contromovimento, una forza centrifuga che spinge in direzione dell’affabulazione, nell’esigenza immaginifica che è visione deformata dall’ironia:

Abbonato al programma delle nuvole

Quella nuvola ha
il profilo liscio di
balena e le ali da
passero, si sta
assottigliando.
Ce n’è un’altra
più rapace ha ali
divise. Abbonato
al programma
delle nuvole, per
il cane la porta
che si apre è
la scena madre.

(p. 25)

La ricerca di una «scena madre» affidata, negli ultimi versi, a quel «cane» che è figura simbolica – e che si maschera di una valenza correlativa – si ripercuote, nei testi successivi, fino a scaturire, finalmente, nelle «vie del bene dire» (p. 28), cioè nel desiderio di dire bene il mondo, il contatto con esso. Ecco che l’affabulazione ricrea l’aderenza:

Il cuore ha una mano?

Amelia Rosselli

Il coraggio di un’imposta aperta.
Di una nuvoletta d’intonaco appena scoccata.
Di ognuna delle facce.
Comprese quelle dell’ombra
di un qualsivoglia malumore.
Le vie del bene dire.
Le strade che si accendono in pace,
nonostante e per il saluto del sole
alla luce artificiale tra le persone.
Le facce ancorate all’affetto perenne.
E i cuori, e allora le stelle?
Le vie del bene dire

(p. 28)

I giochi di suono, la cantabilità di molti componimenti, rispondono all’anelito di relazione; abbiamo notato le assonanze, ma la trama fonosimbolica è ricca anche di rime interne, «Se/ sanguino riparo/ nel mio segreto,/ mi paro…» (Titolo, l’amore, p. 29, vv. 1-4). Si creano ritmi apparentemente ingenui, “orecchiabili”, che velano e stemperano la profondità concettuale, la centralità tematica, così ambiziosa, che riflette sull’esistente e, come abbiamo visto, sulle potenzialità relazionali.
La seconda sezione – Pane delle stesse cose – si apre nel segno di Osip Mandel’štam, i cui due testi posti in epigrafe (dai Quaderni di Voronež), fanno intuire la sicurezza di De Pietro nello scandaglio del movimento oscillatorio, che lo spinge alla compenetrazione della “realtà della visione” nella “visione della realtà” (“l’eternità” cara a Mandel’štam), per accettare finalmente «l’uguaglianza delle pianure». Nell’umiltà e affabilità della concretezza delle cose (Giovanni Raboni – in un articolo del Corriere della Sera, risalente all’aprile 1995 -, riferendosi proprio ai Quaderni di Voronež, evidenziava che l’ultimo Mandel’štam era riuscito a passare «dalla trasfigurazione delle cose alle cose, dall’ininterrotta ed euforica invenzione verbale di un mondo parallelo alla contemplazione disperatamente affettuosa di questo mondo») si riscopre l’attaccamento al mondo da cui può ripartire la fiducia nell’alterità: «scrivere non è niente, ha più risorse il pianto, forse, più/ sorgenti il riso. ripeto a fiato./ Scrivere proviene da un’altra stella, che crolla tra il vetro e la/ carta» (Scrivere viene, p. 37, vv. 20-23). L’alterità («l’altra stella»), dicevamo, è la vera risorsa della scrittura, indizio di questa constatazione può essere, allora, un verso che scavalca le sue precedenti dimensioni, allungandosi fino al riempimento completo della pagina, facendosi tentare, per istanti, dalla prosa, pur non rinunciando alla sua cantabilità. Questa necessità di espansione narrabile del respiro è comunque contraltare – anche qui l’azione di Mandel’štam è evidente – di una ristrutturazione formale che si fa esplicita in un’architettura più contenuta, nel riattivarsi continuo dell’anelito all’armonia (cioè al contatto):

Che belle
le donne
che camminano piano
al loro passo fedeli
e mai invano

per tutte quelle
che hanno fretta
ce n’è sempre una che
da sempre aspetta
al centro di una stanza
coprendo o lontananza
o intemperanza sfinente
– una fermata del bus a suo nome –

chi colma sofferenze
sorridendo a distanza
chi di un giorno di compleanno
fa una festa per le minoranze
che si sommano con gli anni
e fanno un giorno alla bellezza
dai polsi ai fianchi
del cielo che si meraviglia

e tanti auguri dolce sorella,
perché il tuo nome è come
un’ondata di coriandoli e
la tua voce nidiata di rondini
per i nostri sogni di allora
e per quelli di ieri, di ora, e domani
– regalarti un megafono –

tanti auguri di mani e coraggi,
perché senza te la rima del nome finisce,
ed anche la primavera a venire,
non esisterebbe alcun maggio
nulla sarebbe fiorire, nulla decidere…

(pp. 48-49)

Lo sguardo si focalizza sul mondo ma non viene meno la riflessione sul tempo. Anche questa tematica, però, subisce alterazioni in termini concettuali, in direzione dell’accettazione del divenire: «la cosa terrestre che abbiamo/ chiamato occasionalmente tempo perso» (Buona parte d’ombra., p. 45, vv. 7-8).
Occorre ancora evidenziare, però, che l’abbassamento tonale, l’umiltà raggiunta, non implica un appiattimento del gesto poetico sulle cose, non finge la scomparsa del soggetto, amplifica piuttosto la prospettiva, come abbiamo notato. Il risveglio nel reale complica la visione, nel senso che l’arricchimento nell’alterità, pur potenziando lo sguardo, mantiene il rischio del fraintendimento, ecco perché ritorna necessaria la componente affabulatoria, che solo la volontà del soggetto può ricreare con la propria immaginazione:

Le foglie cambiano pelle,
me lo hanno detto loro.
Chiedono, inoltre, di dire
ai bambini che, poi, tutte
andranno in cielo, dato che
provengono da lì, loro e i
loro genitori, gli alberi, ma
proprio da lontano, quando
terra e cielo erano un solo ramo.

(p. 85)

Il segreto dell’affabulazione vive nel dialogo e nella ricreazione che da esso può scaturire in direzione della trasmissione («di dire ai bambini»). L’esistente per un istante (l’istante della poesia) riproduce il miracolo dell’unità, il primo movimento si riavvera (come un dono) “disponendosi” all’accoglienza dell’esterno («le foglie»), il soggetto coglie e passa il messaggio, è testimone ma anche voce ri-creante dell’estroversione del reale, non solo suo descrittore. De Pietro, in questo componimento, riesce a liberare il gesto della poesia e, pur partendo dalla testimonianza, riformula l’evento, non si limita a osservare i fenomeni, non attende un barlume metafisico, reinventa da referenti comuni.
Nella terza sezione – Nuvole in cielo – Capelli di Virginia Woolf in foto – ancora una volta la riflessione sul tempo cambia connotazione, stavolta è il ritorno del passato nella memoria a donare sfumature nostalgiche al segno (ritornano le nuvole della prima sezione). Una volta di più l’oscillazione del divenire si approfondisce e riabilita il ricordo, che funziona anche da sosta momentanea, da revisione del viaggio compiuto, delle esperienze appena vissute. Questa ricaduta nel passato fa respirare il presente, perché la voce deve nutrirsi del proprio passato per vivificare la spinta immaginifica, altrimenti il messaggio verrebbe bruciato nell’istante di composizione, dimenticando la trasmissione e cancellando l’esigenza relazionale. La nostalgia, allora, sarà il contatto col perduto – una morte sempre avvenuta – aggiungendo, in tal modo, il tassello della scomparsa ineluttabile nella ricostruzione dell’esistente. Solo in questa percezione della scomparsa, il viaggio di De Pietro può continuare e il poeta può pronunciarsi sull’ignoto (che arriva a conoscere per mezzo dell’affabulazione): «Così io mi sento. Come mi muove l’atmosfera che non/ riesco a intravvedere, immaginando» (Tenere tracce dei consigli, p. 89, vv. 17-18).
Alcuni segnali retorici sembrano confermare la volontà o necessità di sosta: le inversioni sintattiche s’intensificano, complicando la ricettività – ma è il rapporto col mondo che è complesso, il linguaggio si limita a esprimerlo –, come le reticenze e le iterazioni (quasi balbettii), gli incisi e le parentesi che addensano il dettato di nuovi dubbi:

Contratto, mi sono legato(a)un dito. A un Tempo solo per
Leggere e Reggersi ritornando come
indietro a ripensare vorrà dire il più avanti possibile a
ciascuna importante (causa o) lettura. Scrivere
avventura le cose leggere le ridestina. E una casa la vive
anche il vento, lettere (se abbassare lo
sguardo può, potrà equivalere a credere a un filo e sorreggere
una foglia col pensiero, se chiudo un occhio e lo colmo
nell’altro, lo sguardo vi sembrerà allora più aperto?)
Verso dove e Verso cosa, e chi. (verso)
Per qual sanzione di tempo, ritardo? Mai credere dunque di
star sé sprecando solo
se il silenzio perdona le ruggini sui materiali in disuso e le
cose invece ne vedono il verbo sciupare, anche senza il
suggerimento di te, mio precettore comune padre, o amor
denominatore. È viva, alla luce
delle lacrime, anche la semplice speranza, evviva più. Di
morire, come non dire alla sorte, la voce primule delle
persone, in trattenere, intrattenere. E quelle avventure sorde.

(p. 90)

La sospensione, la stasi espressa dalla reticenza («Le palpebre hanno/ l’impossibile/ canzone del», Ci sono piume., p. 91, vv. 9-11) riporta al tempo assoluto del desiderio – come già nella prima sezione – per cui l’unica possibilità è resistere fino al prossimo approdo immaginifico: «O spaziature del mare,/ per isole del verbo resistere» (Scala infinita, p. 95, vv. 10-11). Il movimento è composto di slanci e ricadute, è necessario tenerlo presente, altrimenti si rischia di non cogliere le possibilità aperte da questo libro, il quale è uno spaccato di esperienze immerse nel divenire. Si tratta di una poesia vivente, che rifugge l’invadenza delle strutturazioni formali e retoriche nel senso di un’esibizione virtuosistica del dire, nonostante le conoscenze approfondite degli strumenti del linguaggio che De Pietro possiede. Al poeta non importa il cedimento di tensione che conduce alla maniera, maschera della caduta dello slancio nelle certezze delle proprie acquisizioni, ma la riattivazione della stessa tensione in direzione del senso con tutti i dubbi che esso comporta, riflettendosi sul fare. Il cammino, d’altronde, non è solo progressione o mantenimento di una posizione (non sarebbe più movimento), ma il vagabondaggio pellegrino che non conosce la sua meta, per questo la sosta si carica di attesa e successiva rivelazione.
Molti verbi e sostantivi della raccolta, in questa terza sezione in maniera maggiore, tradiscono il desiderio prima, l’evenienza poi, del nuovo movimento: «Cammina,/ conoscenza…» (Vita mia, p. 103, vv. 7-8); «mondo delle mosse» (C’è la commozione, p. 106, v. 12); «Avanza. E magari si distrae…» (Credo nel pomeriggio, p. 109, v. 11).
Anche l’ipotesi emerge dalla sosta, prima di ripartire ecco un respiro lungo, un anelito nuovo verso un tu non ancora realizzato:

Fossi tu la
Santa protettrice
dei cespugli e dei
mazzetti di fiori di campo
farei come a pregarti
di tanto in tanto
di dormirmi accanto così
che il fianco riposi la notte
e posi i germogli sul morbido
cuscino di quasi ogni stanchezza
e poi al mattino la fioritura sarebbe
certa e incerta, come da te protetta
mi sentirei campo nel campo dei festivi,
le settimane mi innaffierebbero il fiato, ti affiderei
di tanto in tanto il respiro (un ironico trattamento, scelto e
serio), senza liberarmene ma
per affidargli quel senso di protezione, per farlo nostro
sollievo – angolo, orto
angolo, orto delle mani, raccolto – zolletta di respiro, o
zucchero indeciso
piccola aurora àncora alla tua aureola che ora risuona d’una
grande mancanza
di te, tutta nuova
a primavera e poi a sera si fa più precisa, allora fa’ come il
respiro
il cuscino qualche sogno buono e molta fioritura,

(p. 114)

Tutto il componimento è un lungo periodo ipotetico (che non termina, notare la virgola finale) dell’irrealtà, perché dalla stasi sta per riprodursi, attraverso il desiderio di riverifica relazionale, il cammino, la necessità di ricolmare la distanza – o la mancanza – con l’alterità.
La quarta e ultima sezione – Vedi, è un improvviso – (alfabeto, miglio) – riattiva, finalmente (?), le potenzialità immaginifiche del linguaggio, come a dire che si è pronti a intraprendere un’altra volta la trasformazione. Alcune formazioni verbali della sezione evidenziano quest’impressione: «Panterreno dei voli/ pancielo dei passi» (Passano farfalle, le età, p. 119, vv. 6-7), in cui la funzione di rinnovamento si esprime per neologismi, accompagnando la pienezza espressa dai prefissi (“Pan-“), con l’apertura del movimento (i «voli» e i «passi»). Lo slancio “oltranzistico”, entusiasta, è avvertibile anche nell’inversione dei referenti, per cui alla terra è associato il volo, come al cielo i passi.
Appare un altro riferimento ”letterario”, il Bartolo Cattafi de Le mosche del meriggio, cui è dedicato il testo di p. 120, il quale, a mio avviso, è indizio dei mutamenti oscillatori che emergono nella raccolta e che rappresenta la gestualità poetica di De Pietro. Tangenze concettuali, più che stilistiche, accomunano i due autori siciliani, le quali vanno rintracciate nella specificità di una forma mentis – legata forse al territorio di provenienza – “fratturata”, scissa tra il desiderio della fuoriuscita e l’aderenza all’origine (la problematica del νόστος). Il valore delle “cose” (l’alterità oggettuale, di acquisizione lombarda e raboniana) in Cattafi vive nell’antitesi o comunque nell’ambivalenza:

NEL CERCHIO

Qui nel cerchio già chiuso
nel monotono giro delle cose
nella stanza sprangata eppure invasa
da una luce lontana di crepuscolo
può darsi nasca un’acqua ed una nebbia
il mare sconosciuto e il lido
dove per prima devi
imprimere il tuo piede
calando dalla nave
consueta, transfuga
che il rombo frastorna
in corsa nella mente,
lungo le belle curve di conchiglia.
Sarà prossimo il centro:
là s’appunta il nero
occhio, la nostra
perla di pece sempre in fiamme,
serrata tra le ciglia,
che per un attimo, in un battito ribelle
intacca il puro ovale dello zero.

(B. Cattafi, Le mosche del meriggio, Milano 1958)

Lo slancio trascendentale, che non ha implicazioni d’ordine metafisico, ma esprime la tensione al vero movimento – in cui il mutamento avvolge anche il soggetto poetante che lo compartecipa grazie alle sue capacità affabulatorie – è fondante in entrambi i poeti. In Cattafi la monotonia delle “cose” apre alla visionarietà immaginifica, come in De Pietro, d’altronde, il quale aspira a «Una poesia che sposti le cose,/ che chiacchieri per loro voce» (Giri le lettere, p. 124, vv. 6-7).
Il «continuo argomentare» (Di questo, p. 141, vv. 2-3) della poesia avrà ulteriori sviluppi, quella di De Pietro si ferma, per ora, interrogandosi sul destino della stessa, seguendo fino in fondo il modello mandel’stamiano – Abbonato al programma delle nuvole si chiude, infatti, riportando per intero M’è dato un corpo – che ne farò io, nella traduzione einaudiana di Remo Faccani) –, laddove il poeta russo riflette sul tempo nella speranza che il gesto poetico si eterni distaccandosi dall’autore che l’ha prodotto. Sì, perché la memoria dell’autore che ha compiuto l’atto di ricreazione della poesia, per quanto importante, non è essenziale quanto la trasmissione del messaggio, dell’umanità di un gesto che può estendersi alla collettività, al futuro.

Gianluca D’Andrea
(Aprile 2014).

Carteggio VI: Estravaganze su un’auspicabile κοινὴ linguistica nazionale (da un poeta ad altri poeti)

Pozzo-santIgnazio

Foto di copertina: Andrea Pozzo, Gloria di Sant’Ignazio, Roma, Chiesa di Sant’Ignazio, 1688-1694

di Gianluca D’Andrea

Carteggio VI: Estravaganze su un’auspicabile κοινὴ linguistica nazionale

Non so se si riflette ancora abbastanza sulle implicazioni della morte della tradizione petrarchesca che ha segnato le poetiche novecentesche, perché è proprio questo il punto cruciale delle istanze manieristiche che identificano il secolo breve.
Gli influssi europei, assimilati tra la fine del XIX sec. e gli inizi del XX, prima, “l’americanizzazione” (anche linguistica) della seconda metà del novecento, poi, oltre a dare la vera spinta scaturente alla nascita delle avanguardie, cioè ai fenomeni reattivi alle ideologie borghesi, e successivamente capitalistiche, hanno contribuito al dissolvimento d’impianto di una visione della poesia troppo affezionata alla tradizione classicista.
Si tratta, in buona sostanza, di rintracciare le valenze mortuarie delle macro-aree poetiche del novecento italiano.
Il manierismo, cui ci si riferisce, è riscontrabile nell’opera del più importante poeta del secolo appena trascorso: il Montale prima nostalgico e avveduto conoscitore della crisi (la cui espressione formale è la concentrazione virtuosistica, spasmodica, sull’aspetto del significante del testo), poi “concettoso” assertore, soprattutto da Satura a seguire, di quella disillusione che purtroppo ha condotto, dopo le urgenze epigoniche, alla plausibilità di una restaurazione neo-classica.
Lo slancio avanguardistico si è spento definitivamente dopo la morte dell’ultima ideologia, per cui lo scontro comunismo-capitalismo, esaurendosi nel modello anglosassone imposto su scala globale, esacerbando la confusione tra liberalismo e democrazia, cioè l’ibrida commistione di imperialismo e libertà, ha portato alla frammentazione individualistica delle coscienze (il monadismo sbandierato da molti come evidenza inattaccabile), trasformando ogni carica eversiva in automatismo, ripetibilità tecnico-linguistica che continua a deformare i generi, giustificando aprioristicamente l’invalidità dei supporti comunicativi tradizionali della forma poesia.
Nell’ambito della frammentazione, che è dominio culturale della nostra attualità, è difficile rintracciare aree vitali, germogli di una rinascita comunitaria.
L’Accademia, in Italia, risente ancora delle frustrazioni novecentesche, e l’anti-petrarchismo non è supportato da motivazioni forti, per questo i tentativi avanguardistici hanno avuto spazio nella risistemazione dei canoni ma, come abbiamo osservato, proponendo come desolante risultato l’esclusione del soggetto vitale, considerato in funzione dell’accettazione di un mutamento avvenuto in direzione del suo annullamento nell’automaticità, risposta mortificante e supponenza antiumanistica.
Un movimento diverso, potrebbe essere rappresentato in poesia, dallo slancio vitalistico di una ricerca della fuoriuscita dal sistema mortuario di cui si stanno tracciando le linee.
La figura di Giulio Ferroni, ritornando alle accademie, è tra le poche figure, se non l’unica, ad aver analizzato obiettivamente la crisi e ad aver recuperato le proposte nascoste dentro le disposizioni dominanti del secolo passato. La propaggine cortellessiana, conseguente all’impostazione di recupero perseguita da Ferroni, pur calpestando le orme di quell’insegnamento, risente in spinta e lo scavo nel patrimonio oscuro del novecento sembra per ora fermarsi a figure già ampiamente documentate, senza che sia avvertibile una riformulazione di poetiche alternative alle linee dominanti. Il contributo più importante, in questo percorso, è stato il rafforzamento progressivo della centralità di un autore come Zanzotto, il quale è riuscito a produrre una poesia che intravede la fuoriuscita, sia dalla visione classicista (che non significa tradizionalista, ricordiamolo), sia da quella avanguardistica, dall’aura mortuaria, per intenderci, in direzione dell’unica verità pertinente a ogni ricerca onesta, cioè quella sperimentale (e in grado, anche, di vivificare l’aspetto “simulativo” del linguaggio poetico).
Minimi germogli crescono dall’attraversamento di una de-costruzione necessaria, il che comporta uno sforzo di comprensione massiccio dell’accaduto, la lingua poetica non ha fatto pace con se stessa, quindi con l’esistente, ecco perché le forme chiuse continuano a risorgere nell’urgenza stilistica di un ordine di nuova concezione. Ed è proprio il repertorio tecnico della tradizione italiana a offrire un contributo d’esigenza estendibile anche al difuori dei nostri confini. Invasata di cultura anglosassone in versione statunitense – tradizione però in deficit perché ha esaurito gli ultimi slanci dell’epica originaria -, la nostra letteratura poetica non deve continuare a riciclare dall’archivio del racconto in poesia, dalle commistioni prosastiche che esprimono solo una dipendenza epigonica, ma può recuperare le sue origini di canto perfettamente inerenti alla singolarità di ogni percorso dentro un contesto che si è fatto globale, neutro, privo di riferimenti certi. Deve tentare il nuovo del proprio, risalendo alle radici di una lingua nata dal definitivo disfacimento della κοινὴ latina, come oggi, insieme ad altre culture, si assiste alla fine di un dominio culturale contaminato da più parti, ma soprattutto dalla stessa dinamica accentratrice che ha avuto come risultato le spinte centrifughe dei linguaggi altri precedentemente spinti a forza nel sistema (parlo ancora di cultura statunitense).
È ormai decisivo tentare di ristabilire un’identità linguistica su basi ibride (impure), seguendo finalmente l’esempio di Dante e dimenticando definitivamente Petrarca. Sì, perché, morta la “lingua” letteraria, morte le avanguardie, occorre rintracciare nuove pulsazioni e il novecento è un laboratorio molto produttivo di voci del margine, non sempre ben focalizzate, e quindi trascurate, da una critica che continua a essere debole per strumenti o libertà di movimento, o peggio ancora, accomodata sull’inerzia di quel poco, e abbondantemente acquisito, che la grande editoria concede ai lettori di poesia. Un esempio di questo difetto d’impostazione è la superficialità con cui è stata trattata la poesia di sperimentazione meridionale, la quale pur producendo voci forti e potenzialmente innovative, ha vissuto all’ombra delle macro-aree canonizzate, incasellata in maniera forzata, o totalmente esclusa (vedi il caso evidentissimo di Cattafi), il che non sempre è un male perché può provocare l’impulso alla riscoperta, soprattutto se sono i poeti a ristabilire il contatto, partendo dalla curiosità e dalla cura per un messaggio a volte surrettiziamente estromesso. La possibilità di riscoperta e scavo possiede una funzione riabilitativa anche del ruolo del poeta, che rinasce vivificato dall’avventura del ritrovamento e dal rischio derivante dal rimettere in discussione le recinzioni critiche che determinavano, ancora fino al novecento, l’eventuale propagazione dei testi. Probabilmente è un’illusione che può giustificarsi all’interno del quadro più ampio delle debolezze critiche cui abbiamo già fatto riferimento. L’attraversamento obliquo della tradizione novecentesca potrebbe portare a rivalutare un linguaggio troppo sbrigativamente etichettato come “barocco”, quasi a rilevare un’opacità espressiva da contrapporre alla lucidità dell’atteggiamento classicista. Una misura che invece si presenta movimentata, ricca, anche paradossale, ma col merito di mantenere un perenne slancio agonistico nei confronti dell’arbitrario e dello scontato, potrebbe suscitare nuove questioni, evitando proprio quella restaurazione classicista che rischierebbe di atrofizzare e musealizzare l’esistente, aprendo, invece, alle sempre vergini potenzialità affabulatorie e immaginifiche del linguaggio. La scomparsa dell’immensa muraglia petrarchesca può collegarsi all’affermazione del suo esatto opposto: non si tratterà, dunque, neanche di ipostatizzare – come confusamente si tenta di fare, soprattutto dalle poetiche del dato di matrice lombarda, manzoniana – l’estinzione identitaria, poiché il soggetto non ha smesso di creare, ma ha adattato le proprie modalità al mutamento esistenziale in corso. L’elaborazione poetica ha già fatto i conti con la crisi scatenata dalla frammentazione imperialistica di cui si è discusso, per cui il soggetto-nazione aveva reimpostato la propria identificazione sul conflitto autoaffermante, conducendo alle estremizzazioni totalitarie. La concrezione del male ha annichilito, a ondate intermittenti, un periodo già provato dalla perdita di slancio della classe sociale borghese instauratrice delle dinamiche imperialistiche nazionali, cioè di fenomeni che hanno portato allo scoperto la violenza radicata negli impulsi economici del capitale industriale, fino agli strascichi spionistici, ma velati e comunque dilaceranti, del secondo dopo guerra. L’ultima propaggine degli spostamenti economici di potere è rappresentabile come estrema astrazione del capitale, nascondimento delle dinamiche di potere, “fantasmizzate” sotto il lenzuolo rassicurante della democrazia globalizzata. Non si può non tener conto di queste dinamiche di falsificazione dell’esistente sotto la maschera di un reale sempre più proiettato verso una dimensione “virtualizzata”, schermata dall’informazione e dalla comunicazione di massa. La sensazione diffusa di una perdita irrimediabile si accompagna sempre al disorientamento del nuovo, infatti, la fuoriuscita non è pensabile nella presunzione dello smascheramento dell’irreale, il quale è parte conformante del nostro essere (da qui la tensione emancipante verso il vuoto della fine, inteso come orizzonte inesplorato, possibilità immaginifica e anche limite fisico), ma neanche nell’accettazione del “dato” come residuo di una vitalità che, solo nella sua sottostima, può certificare un senso (atteggiamento crepuscolare, con in aggiunta la perdita dell’ironia che permetteva, quantomeno, il contatto con la dissimulazione, manifestandola nell’atteggiamento dissacratorio. Come poi l’ironia post-moderna, con la sua esasperazione citazionista, ha fatto conservando il legame con la tradizione). Quest’ultimo atteggiamento, purtroppo, contribuisce allo spostamento della “persona” al margine dell’esistere (in poesia, al margine del testo), confuso col suo centro, trasformandola in oggetto di consumo esattamente come le piccole o grandi cose percepibili dall’habitus della quotidianità, come in un’ipnosi infinita, intossicata dal ciclo, astratto perché ormai autoimposto, del consumismo avanzato. Alcuni spostamenti sembrano verificarsi nell’attenzione a un’oggettualità inedita e dalla paura della perdita, per cui l’aspetto testimoniale della lingua può fungere da collegamento memoriale, così come la concentrazione sulle tematiche ambientali nasce in funzione della conservazione. In questi casi il testo può avvertire una nuova necessità poematica, perché alla memoria occorre lo sviluppo, come la nostalgia ha bisogno di aggrapparsi al passato, ma l’unico risultato plausibile è un ritorno utopico, una mitologia rovesciata, che non ha più possibilità di attecchire, perché rende constatabile solo l’estinzione nel rimpianto. La visione poematica, però, può contenere i germi di un diverso sviluppo solo se il passato viene accettato come repertorio da cui estrapolare il senso dell’alterazione, detto in altri termini: per verificare il movimento. Il ricordo è conoscenza di un’oscillazione apparentemente ripetitiva che porta in sé le sue modifiche, continuamente, per questo la testimonianza va, invece, rimessa in questione attraverso la variazione; infatti, se la testimonianza è nostalgica, l’alterazione è il divenire, un’irrequietezza che si auto-rinnova nel suo stesso movimento. Il soggetto può ricomparire nel testo, riacquisire il ruolo determinante di catalizzatore delle trasformazioni, accompagnando il divenire. La ricomparsa del soggetto esposto nel testo, denudato perché pienamente presente, non può essere ancora ritardata, infatti, è stato il suo annientamento novecentesco (il manierismo formalista e nostalgico, ultima propaggine classicista, come abbiamo visto) a esasperare l’impossibilità di una ricomparsa, inibendo ogni rigenerazione, riducendo il percorso oscillatorio dell’esistente all’assenza, semplificazione mortuaria, intimidazione continua ossessionata dall’aspetto testimoniale, incapace di ripartire dallo scempio della colpa. Purtroppo, nel frattempo, il mondo si è identificato in questa assenza, assorbendo il desiderio della fine, per cui il concetto esasperato del post- ha assunto la posizione di statuto, per quanto agisca complementarmente ai tentativi di scavo e recupero. Forse il post-umano potrebbe ancora essere un soggetto senziente, dipende da come si reagisce alla condizione auto-imposta dell’oggetto “automizzato”, emerso alcune volte dalle riflessioni di queste righe.
Si era parlato del recupero nostalgico attuato da alcune porzioni della poesia attuale, in tale questione occorre poter rintracciare i prodromi del malessere, ipostatizzazione di un male che il novecento poetico eredita dalla comprensione distorta di Leopardi, o meglio da una sua lettura ridimensionata, ancora una volta, dal canone classicista. Questa prospettiva parziale ne ha ridotto l’eredità, esasperandosi nelle tensioni opposte, ma entrambe nostalgiche, e per questo manieristiche, di Pascoli e D’Annunzio. Introversione psicologica ed estroflessione mascherata hanno contribuito all’annientamento del soggetto, come prima risposta all’insofferenza borghese, stagione conclusasi nella rassegnazione castrante di Montale, come abbiamo visto. Quel che viene dopo vive all’ombra di una constatazione che neppure intravede sbocchi se non, lo ripetiamo, in alcune ricerche originali e considerate eccentriche rispetto alla linea dominante.
Non è slancio l’understatement moraleggiante, d’ascendenza abbiamo detto manzoniana, di certa poesia prodotta negli ultimi anni al nord del paese, in cui l’accettazione dell’evidenza, della “datità” delle cose del mondo, sembra pianificare l’ultima confusione tra realtà e verità. Il presente, in queste poetiche, si assolutizza pietrificando il fluire, edificando un mondo crepuscolare che osserva, dalle sue piccole costruzioni, i minimi baluginii, trasformando la tensione plasmatrice nell’attesa sfibrante dell’attimo metafisico, il senso che finge di essere inatteso quando è già prodotto aprioristicamente dalla dimensione dell’attesa. A ben vedere, si tratta di poetiche della testimonianza per cui la fenomenologia del dato è àncora protettiva, costruzione sull’acquisito. La sensazione suscitata è di livellazione claustrofobica senza il respiro ampio dell’apertura. L’esposizione, invece, è il bisogno di una nudità certo immersa nel divenire, cioè non il semplicistico “ciò che è” che, a ben guardare, accade in un momento preciso sotto gli occhi del poeta, il quale presumendo di ridurre il suo ruolo alla marginalità tra le cose, non fa che sentire e trasmettere l’agio dell’accomodamento tra le stesse. La poesia, però, non cerca l’agio, né la prospettiva, comunque privilegiata, della testimonianza, ma lo slancio della ri-creazione continua, tentando di dare forma all’informe, illuminare, anche per un istante, ma non costruire, dare sempre la giusta evidenza alla terminazione (il buio che circoscrive l’essere).
Altra strana faccenda della nostra letteratura fu trascurare la vicenda sperimentale dell’opera carducciana, per la prorompenza della figura e del ruolo di questo poeta. Il nostro gusto è stato orientato in direzione della crisi e della riduzione, chi non sente trasporto per Pascoli evitando Carducci per motivi non strettamente inerenti alle capacità testuali? Mi limito al messaggio legato a sperimentazioni altissime ma incompatibili, fatto sta che la posizione del soggetto in Pascoli è esposta in negativo, il fanciullino è un piccolo narciso, non un creatore di forme, ma un disfacitore: «A costituire il poeta vale infinitamente più il suo sentimento e la sua visione, che il modo col quale agli altri trasmette l’uno e l’altra […] » (G. Pascoli – da Il fanciullino). La sperimentazione è la poesia della riformulazione, conoscenza delle possibilità della parola che non concede tregua e accomodamenti, non nei soli termini della dissoluzione ma anche in quelli della vitalità che la contiene. Una vitalità emergente dall’abisso (ancora un’evidenza etichettabile di “barocco espressivo”, ma quanto stanno strette le etichette!), l’espressione assoluta per cui il singolo è presente, nitido nella sua non definizione, cioè presente alla propria alterità. Il testo poetico, in questi casi, mette a disposizione un messaggio “veramente” comunicabile, perché è nella complessità l’unica evidenza, contrariamente alla semplificazione assecondante del punto di vista.
Il movimento appena esposto ha la caratteristica di focalizzare dei valori comuni come l’immaginazione creativa del soggetto che si espone ad altri soggetti in modo diretto – senza infingimenti di riduzione a oggetto tra gli oggetti – o la vitalità espressiva della rielaborazione continua che è un dovere nei confronti del divenire, oscillazione espressa dalla mutazione e ripetizione dei registri.
Forse ripartire da considerazioni che riguardino le potenzialità benefiche di un linguaggio che ci si ostina a definire estinto (quello della poesia, che invece si continua a scrivere), potrebbe combaciare con il ribaltamento del canone pluricentenario, e questo veramente estinto, classicista. Certo è difficile lasciar andare il morto, l’elaborazione del lutto per un assente così ingombrante potrebbe prolungarsi, ma la vitalità espressiva che si avverte come fecondamente produttiva potrebbe collaborare a questo inevitabile processo, anzi potrebbe focalizzare, nell’essere contro la conservazione dello spettro, un nuovo orientamento (quello di cui si avverte la mancanza) del linguaggio: alla purezza dell’espressione sostituire in via definitiva la sua necessaria – perché continua – ibridazione. Il coraggio dell’estroversione può rispondere alla crisi antropologica in atto, solo occorre intendere le potenzialità dell’esposizione del soggetto e, di conseguenza, del linguaggio in un contesto che tende ad accettare, ancora, la banalità del male come un concetto distaccato dalla sua scaturigine (intrinsecamente immersa in un disordine epistemologico e storico che si protrae da almeno due secoli e che potrebbe aver fatto il suo tempo – anzi, chi scrive queste parole ne è assolutamente convinto). Occorre ormai riconoscere, invece, che “il male di vivere” ha smesso di essere produttivo e sta consegnando il linguaggio alla fine delle sue potenzialità creatrici.

(Marzo 2014)

Carteggio II

Sicilia_antica_Abraham_Ortelius_1580

Sicilia antica, Abraham Ortelius, 1580

di Gianluca D’Andrea

Carteggio II

Cari,
più mi sforzo più non trovo un ricordo distinto sull’evenienza dello scrivere in versi, non trovo neppure un’identità definita, neanche me ne stupisco essendo siciliano. Sì, perché la Sicilia non ha un’identità, è lo specchio di se stessa. Circondata dal suo mare, l’isola è stata sempre soggetta alle invasioni più disparate, diventando crogiolo indefinito, metamorfosi di culture, diversificazione che ha prodotto ambivalenze, le quali hanno un riscontro nei caratteri del tipo “siciliano”: ribelle ma disposto al compromesso, eclettico, sensuale e gelidamente aristocratico. Vanitoso, arrogante e in ugual misura servile. Insomma tutto fuorché stabile. C’è un fondo di risentimento, a mio avviso, che segna qualunque attività siciliana compresa la scrittura. Ad esempio: «prenderli con la forza/ qui legarli/ questi miti della primavera/ a rinsecchire e annerire/ a mostrare la vera scorza» o «mi domando perché non debba esserci/ una distinta dei prezzi/ reni polmone cuore/ e un mattatoio/ e un pubblico spaccio/ di carne umana/ docile dolciastra facilmente/ assimilabile/ divorata da sempre/ dietro una trasparenza di metafora» (B. Cattafi). Il risentimento di cui sopra traspare dalla volontà, quasi violenta, di spostare nella scrittura il reale col solo scopo di non lasciarlo fuggire. Il risultato della forzatura è la trasfigurazione dell’esistente, un’immaginazione che, combattendo la fine, tende a mitizzare, a eternare. Il referto di questa potenza che vuole liberare il movimento, trasformandolo in tensione costante tra possesso e abbandono, è il risentimento di cui parlo e, a mio avviso, la costante dell’opera cattafiana, ma non solo.
Le metafore, leggendo le vostre scritture, non posso non costatarlo, agiscono sempre in funzione di uno svelamento. Ecco, questa necessità di squarcio dipende sempre dal luogo in cui si è originata la nostra scrittura, nonché dalla sua ambigua evoluzione antropica e sociale. L’isola diventa dimora senza radici, abbagliata dalla sua possibile autosufficienza, difficilmente disposta a quel dialogo che sembra esserle stato strappato, dai continui insediamenti, dalle continue forzature appunto. Come vivere un’offesa continuamente ripetuta, accogliere lo straniero in casa ha conformato un atteggiamento sociale che si maschera d’ospitalità, alibi di sussistenza. Quest’offesa e questa impostazione relazionale sono alla base della messa in scena, della teatralità, della pomposità barocca e mi sembra inutile, adesso, ribadire il concetto attraverso riferimenti alla nostra tradizione letteraria (basti Pirandello su tutti). Nel tentativo di ricostruire il dialogo perduto nella forzatura violenta, chi nasce e cresce in Sicilia risponde con un’altra forzatura, l’autoesilio. Certo, le necessità pratiche spesso s’impongono, occorre partire per ottenere un lavoro consono alle proprie scelte, verso lidi più felici, civilmente non abituati al paradosso della lotta continua, intavolata per non dover arrivare a svendere il proprio sé alla pura sussistenza. L’altra tendenza, che non esclude la prima, è la chiusura, o meglio la clausura, si resta ma è come essere immersi in una perenne autodifesa. Questo esigere ha del sacrificale e del masochistico e produce una nostalgia profonda, ctonia, per richiamare un termine caro a Enrico. A una lettura di versi, svoltasi a Roma nel 2003, una signora, di cui ricordo l’acconciatura arricciata e simpaticamente sontuosa, accennò al mio sguardo triste paragonandolo a quello di altri siciliani. Quest’episodio minimo mi ha spinto a riflettere su questa tristezza che accompagna i nostri sguardi sul mondo, mi ha ricondotto a quella nostalgia che deriva dal dovere lasciare. Anche ritornando, dopo tanti anni, si è colti dalla sensazione di aver perduto l’isola, la nostra individualità, la certezza che la nostra fortuna (il nascere in un luogo ricco da un punto di vista naturale, ma povero perché depredato e poi auto-depredato), nella sua illusorietà, può essere completa solo in una casa che vive nella nostra immaginazione, e solo nell’illusione che ne deriva (ancora quel risentimento che crea favole).
«Le sognanti, lontane ombre che sono/ dietro le tue parole» (Lucio Piccolo), le nostre parole, diventano i nostri realia, e, a mio avviso, in questi limiti si gioca la differenziazione di chi scrive dall’isola rispetto al resto d’Italia; i veri oggetti sono le ombre e occorre passare dalla conquista delle stesse per affondare le nostre radici, solo nella lotta con esse si può realizzare l’eterna «promessa d’un ritorno» o, detto altrimenti, l’infinità dell’origine.

(Febbraio 2014)