“Avrei fatto la fine di Turing” di Franco Buffoni, Donzelli, Roma 2015

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Franco Buffoni (Foto di Dino Ignani)

LA STORIA NELL’INDIVIDUO
(su Avrei fatto la fine di Turing di Franco Buffoni)

avrei-fatto-la-fine-di-turingL’ultimo Buffoni si muove nel segno della ricognizione. Il percorso lungo di una poesia da cui emerge la storia collettiva, quella attraversata e incollata alle radici di un’esperienza tra le più necessarie di questo scorcio di secolo. Tanto più necessaria perché s’immerge nel dolore e nel “male”, nell’eredità, cioè, del secolo appena trascorso.
Le tre ultime operazioni – Jucci, 2014; O Germania, 2015; Avrei fatto la fine di Turing, 2015 – sono legate dalla meditazione sulle restrizioni sociali, in qualche modo subite da un soggetto in deficit (affettivo, relazionale?) che adesso s’interroga, dopo averne attraversati i risvolti e le conseguenze nefaste, sul “ritrovamento” contemporaneo: il decentramento personale, quindi, e il disorientamento collettivo dell’uomo del XXI secolo. In Jucci la scomparsa dell’amica/giovinezza (senhal più che evidente se andiamo a scorrere i testi di quel libro, vedi qui), quella della comunità civile in O Germania, della “filialità” e della trasmissione generazionale dei codici etici condivisibili in Avrei fatto la fine di Turing. Il territorio della “crisi” è rivisitato con le solite strategie d’intreccio tra vicende personali e storia collettiva, maschera e, allo stesso tempo, svelamento di una memoria che tenta la rielaborazione del lutto per la perdita del passato. Così come O Germania, infatti, rimetteva in discussione il rapporto ambivalente, amore/odio, con un paese stimato per la grande capacità di regolare il proprio vivere civile eppure deludente perché, proprio in conformità con il rispetto della regola, tende ad acquisire superiorità sugli stati che non riescono ad avvicinarsi al codice condiviso, tutta l’opera di Buffoni è scossa dal duplice movimento, attrattivo/repulsivo, nei confronti della norma. Inserzioni da altre lingue, commistioni dialettali, sintassi scabra, scelte lessicali umili e tono colloquiale, sono indizi dello stridore stilistico che muove una scrittura nervosa, scissa tra convergenza e repulsione al contesto sociale, un ben specifico contesto sociale, quello piccolo borghese della famiglia d’origine («Perché era un piccolo borghese/ Il mio padre amoroso» (Avrei fatto la fine di Turing, p. 17, vv. 6-7). Avrei fatto la fine di Turing è il riferimento, esplicitato in nota, alla vita del matematico Alan Turing che, nonostante il ruolo decisivo svolto nella decrittazione dei codici segreti nazisti durante la seconda guerra mondiale, fu costretto a castrazione chimica, perché omosessuale, finendo suicida. La scintilla dell’accostamento probabilmente nasce dal confronto con quella società dell’infanzia (Turing muore nel 1954, Buffoni era nato nel 1948) che condannava chi non era “conforme” al codice comune stabilito.
Il senso di colpa di Buffoni, che sembra nascere dall’impotenza nel confronto col mondo del passato, trova sbocco e distensione espressiva solo in questa recente stagione poetica. Il primo testo di Avrei fatto la fine di Turing (Per placare Monaldo, p. 13, con accostamento al rapporto tra Leopardi e il padre) è una confessione: il poeta sceglie la “finzione” e partecipa dell’occlusione di un rapporto che da allora si sviluppa nel velamento e nel terrore (si veda la selezione di testi in calce a questa riflessione).
Il libro, diviso in 14 sezioni, è un cammino costellato di ombre, poche le luci e tutte concentrate nella seconda parte, in cui la figura loica, ferrea e “scientifica” rappresentata dal padre – e più in generale dalla natura mascolina – è sostituita da quella materna, fideistica, colpevole (e colpevolizzata): «Tu che di lodi ne avevi ricevute/ Sempre poche. «Beh, almeno i figli/ Li ho fatti intelligenti!», dicevi alle sue spalle/ Dopo l’ennesima tirata sulla tua/ Superficialità» (p. 95). Nella sua architettura chiusa (I-VI sezione: relazione del soggetto col padre; VII sezione: osservazione del rapporto tra i genitori; VIII-XIII sezione: relazione con la madre; XIV sezione: sostituzione dei ruoli padre-figlio), Avrei fatto la fine di Turing prova a smascherare la “scissione” originaria, la radice del male nel trauma dell’ammissione del vero, inscenando un tragitto purificatorio. La stagione feconda del recente Buffoni è la conferma del mescolamento ideale-reale come approssimazione ai mutamenti etici tuttora in atto: tra scienza e fede, mascolino e femminino, “borghesismi” e anticonformismi, implodono tutti i luoghi comuni dell’uomo novecentesco e si esprimono in un affresco abbastanza lucido e, forse, definitivo. Dal quadro, però, scivolano via ombre non ancora risolte che aggrediscono il contemporaneo, l’eredità di una colpa di cui si preavvisano nuove scissioni, nuovi mostri, ibridi, per cui il discorso etico sembra ancora essere lontano dal trovare requie.

TESTI

Da: I. Per placare Monaldo

Per placare Monaldo

Occorre fingere per placare Monaldo
Abbozzare
Smettere di accusare il vecchio tonto
Di clericale codinaggio,
Piuttosto concentrarsi sullo Stato di Milano
Sulla cultura libertina
Di Settala e Cardano
Tra scienza e medicina… O meglio
Su ciò che è stato lo Stato di Milano…
Perché dal catechista amico del Giusti
V’è ormai ben poco da aspettarsi,
Palese è il voltafaccia,
Col ritorno dei viennesi s’è dato
Alla distribuzione del viatico agli infermi
E agli inni sacri.

Da: II. Avrei fatto la fine di Turing

Avrei fatto la fine di Turing

Avrei fatto la fine di Alan Turing
O quella di Giovanni Sanfratello
In mano ai medici cattolici
Coi loro coma insulinici
E qualche elettroshock.
Perché era un piccolo borghese
Il mio padre amoroso
Non si sarebbe sporcato le mani.
Controllando l’impeto iniziale
Vòlto allo strangolamento
Del figlio degenerato,
Ai funzionari appositi
Avrebbe delegato
La difesa del suo onore.

*

L’incubo

L’incubo di essere ancora
Quello venduto e giudicato da suo padre,
Questo l’amaro frutto del cervello
Quando stava per svegliarsi.

I suoi maldestri atti d’amore,
Oggetto d’odio ancor più della routine
Di indifferenza, o persino dell’urlo.

Di più mi impietrivano gli slanci.

Da: IV. La domenica al cimitero

Perché sono prigioniero?

A quale ingiustizia stai pensando, babbo?
Il cartellone col disegno delle bombe
Nel corridoio delle elementari
Era rimasto a noi col soccorso invernale
Il padre Cerri l’odore di DDT
L’annaffiatoio con l’inchiostro del bidello.
A quale ingiustizia stai pensando?
La tua con i francesi
Nel luglio del Quaranta?
Il tuo aver obbedito fino in fondo?
Come quel foglietto di carta da tabacco
Scritto in matita
2 gennaio 1944
Campo di concentramento di Deblin, Polonia
«Perché sono prigioniero?».

*

Vittorio Sereni ballava benissimo

Vittorio Sereni ballava benissimo
Con sua moglie e non solo.
Era una questione di nodo alla cravatta
E di piega data al pantalone,
Perché quella era l’educazione
Dell’ufficiale di fanteria,
Autorevole e all’occorrenza duro
In famiglia e sul lavoro,
Coi sottoposti da proteggere
E l’obbedienza da ricevere
Assoluta: «È un ordine!»,
Riconoscendo i pari con cui stabilire
Rapporti di alleanza o assidua
Belligeranza.
Ordinando per collane la propria libreria.

Da: VI. Le ditte muoiono in ospedale

Ogni volta che fisso negli occhi un albero

Ogni volta che fisso negli occhi un albero
Sento che mio padre mi guarda
E non è affatto piacevole.

Da: VII. Vita col padre e con la madre

Il reguitti

Prima di scappare, riprendere tono
– Il reguitti cedeva di schianto
Solo alle otto con il caffè –
Litigavano per l’aumento
– Sul vetro nuovo lo stucco
I segni dei polpastrelli –
Erano genitori.

Da: VIII. Dulcissima

Quando eri ancora adulta

Quando eri ancora adulta
Prima di rimpicciolire
Ti lasciavo sola volentieri,
Dovevi espanderti e io non mi vedevo
Nei tuoi spazi.
Poi per davvero ebbi l’occasione
Di fare attenzione alle tue forme,
Al loro chiudersi, e i tuoi spazi
Presi a difendere, meno li occupavi
Più li presidiavo.
Finché non mi è restato
Che un batuffolo con voce da proteggere
In una ipotesi di spazio.

Da: IX. Mater

Cadono foglie rosse

Cadono foglie rosse, crocchieranno
Come patatine anche loro tra un po’
Sul vialetto smorto
Dove si incontrano bestie di satana
Non andate a scuola,
Mentre mia madre
Dopo avermi ascoltato apostrofare
Padre indegno di tre figli il cugino puttaniere,
Dice disprezzi critichi lo insulti,
Ma almeno lui permette che continui
Il ciclo della vita.

*

L’amore è un lavoro

L’amore è un lavoro, o forse un lavorìo
Di piatti di bicchieri di ferri da stiro
Ancora in garanzia.
L’amore è in garanzia per una forma
Di protezione degli opposti,
Un calcolo sbagliato,
Un taglio al dito che non si rimargina
Per il continuo uso ed il rimprovero
Costante superiore
Perché non metti i guanti?

Da: XII. Mancava solo che per compiacermi

Mancava solo che per compiacermi

Mancava solo che per compiacermi
Ti alzassi a fare colazione
E poi tornassi a letto a finire di morire
La mattina del 27 di dicembre.
Respiro lungo da sonno imbronciato,
Gentilezze da figlio a casa per le feste
«Ti preparo il tè», e la convinzione
Di aver udito un grugnito di assenso.
Invece il coma ti aveva già saldato
Il respiro ai sensi: «Il tè si fredda»
Mentre guardavo le mail…

«Brava! Sei stata brava!»,
Te lo dissi subito, tenendoti la mano
Appena smettesti con quel soffio leggero.
Tu che di lodi ne avevi ricevute
Sempre poche. «Beh, almeno i figli
Li ho fatti intelligenti!», dicevi alle sue spalle
Dopo l’ennesima tirata sulla tua
Superficialità.
Magari incapaci di distinguere
Chi sogna da chi è in coma.

Da: XIII. Prima si pettinava

Poi basta una mattina di vero sole

Poi basta una mattina di vero sole
Aprendo le griglie della sala
Luccica al raggio la cima del pino
Ed è una luce del cinquantanove
Coi tre vestiti dell’estate
Pronti per il Corpus Domini
Uno da passeggio seta a fiori
Per la processione
Uno da sera in tinta unita, scuro
O bianco, uno da casa se veniva gente.

Da: XIV. Cristo-Mercurio e Venere-Maria

Le nostre infanzie

Di quando il ventre ti fioriva di me
E lì il nostro tempo si è fermato.
Le nostre infanzie con le fiabe al Caran d’Ache
Nella scatola di metallo
E l’ultima già in età adulta,
Fino al tuo dolore animale
Che si fa quieta disperazione.
Quello è il passaggio che mi fa impazzire,
La trasformazione della fiaba in vita.

*

Io sono il lupo di tutti

Io sono il lupo di tutti
Gridavo scendendo di corsa le scale
La mattina del giorno di Natale,
E nella palla più bassa riflesso
Il volto troppo vicino
Era mostruoso, la bocca spalancata
Da piccolo in attesa.

*

Perché io che per te da bambino

Perché io che per te da bambino
Un piccolo dio ero stato
E crescendo Cristo-Mercurio
Con te Venere-Maria,
Poi divenni il tuo
Padre e marito
Pur restandoti figlio,
Nella nostra costellazione famigliare
Per trent’anni al sole giocando
Sorgente
Con te luna calante.

Gianluca D’Andrea
(Ottobre 2015)

Franco Buffoni: LA CRAVATTA DI SERENI – Niccolò Scaffai, “Il lavoro del poeta. Montale, Sereni, Caproni” (Carocci, Roma 2015)

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Montale, Sereni, Caproni (Elaborazione grafica di Gianluca D’Andrea)

di Franco Buffoni

LA CRAVATTA DI SERENI

il-lavoro-del-poetaHo avuto occasione, il 5 ottobre scorso, di presentare alla Casa delle letterature di Roma il bel saggio di Niccolò Scaffai Il lavoro del poeta, edito da Carocci. Particolarmente incentrato sulle figure di Montale, Sereni e Caproni, il libro può definirsi complessivamente un’indagine sul sistema di relazioni, incontri, occasioni che motiva la scrittura e le dà sostanza. O, come più prosaicamente ha sintetizzato nella sua recensione al volume Raffaele Manica sul Manifesto, “su che cosa passa per la testa dei poeti quando fanno poesia, e dunque sul perché si faccia poesia”.
Confesso d’essere un appassionato lettore di epistolari. L’estate scorsa ho letto integralmente quello tra Vittorio Sereni e Luciano Anceschi curato per Feltrinelli da Beatrice Carletti con prefazione di Niva Lorenzini (epistolario richiamato anche da Scaffai nel suo lavoro, in particolare con riferimento alla lunga lettera di rifiuto da parte di Sereni del concetto di Linea lombarda); in seguito ho lungamente compulsato anche il carteggio tra Luciano Erba, Piero Chiara e lo stesso Anceschi, uscito per le cure di Serena Contini presso Nuova Editrice Magenta di Varese. Ricordo anche come sia stata illuminante per me qualche anno fa la lettura dell’epistolario Sereni-Bertolucci, e in particolare quella considerazione a margine del mio maestro Giovanni Raboni sulle vite militari dei due poeti. Sereni – di estrazione piccolo-borghese, osservava Raboni – si applicò seriamente al corso per allievi ufficiali, conseguendo il grado di sottotenente, con successiva responsabilità bellica di centinaia di giovani uomini ai suoi ordini. Bertolucci, grande borghese, fece il soldato semplice, imboscandosi subito, in pratica evitando il fronte. Perché, per Sereni, quella divisa con le stellette, quei gradi, lo stipendio che conseguiva, rappresentavano anche una promozione sociale; per Bertolucci non significavano nulla. Al riguardo, ricordo che Piero Bigongiari – altro grande borghese – in quegli anni restò nascosto in campagna a tradurre Ronsard. E certamente non era cagionevole di salute.
Dedica ampio spazio ai carteggi Niccolò Scaffai nella sua trattazione. Per esempio raffrontando come, differentemente da Ungaretti (che sovente anticipa nelle lettere versi e/o concetti poi centrali nelle poesie: per esempio scrive a Papini “c’è una pena che si sconta, vivendo, la morte”), Montale sveli ben poco dei suoi versi nell’epistolario. Per questo resta significativa la poesia “Eastbourne”, anticipata – per quanto concerne il riferimento cronologico all’August Bank Holiday – in una lettera a Irma Brandeis. Ebbi pertanto buon gioco, nel corso della presentazione, ricordando per analogia come Raboni raccontasse con disappunto di una cena con Montale tra i commensali, nel corso della quale l’autore delle Occasioni non seppe parlare se non di pensioni, anni da riscattare, prebende da riscuotere.
Perché è così: c’è la poesia, ma ci sono anche i poeti, e con loro c’è la vita con la sua volgarità, il suo cinismo. Ricordo l’espressione di divertito stupore che si dipinse sul volto di un giovanissimo Guido Mazzoni nel 1993 a Milano nella storica sede della Fondazione Corrente, dove presentammo il III Quaderno di Poesia Italiana Contemporanea. Era presente Maria Luisa Bonfanti, alias la signora Sereni, invitata a intervenire da Treccani in persona, alla quale chiedemmo di che cosa parlassero Sereni e Anceschi quando s’incontravano. “Di calcio…”, rispose serissima.
Ma che importanza dava Vittorio Sereni ai suoi avantesti, a tutti quei documenti che gli studiosi delle generazioni successive poi compulsano con religiosa attenzione? Si legga questa lettera dello stesso Sereni a Maria Corti, riprodotta da Scaffai a p 133: “Un quaderno dove mettevo i miei appunti abbastanza sistematicamente intorno al 1960, l’ho consegnato all’arch. Gio. Vercelloni che me l’aveva dato del tutto vergine come augurio di fine anno. E’ giusto che se lo tenga”. Dunque, secondo Sereni, poiché l’arch. Vercelloni gli aveva regalato a Natale un bel notes nuovo, era giusto che se lo riprendesse con tutte le preziose annotazioni, abbozzi di poesie, considerazioni e quant’altro.
Roba davvero da far tremar le vene ai polsi, se si pensa che oggi a villa Hüssy a Luino, sede della biblioteca comunale, chiunque può salire all’ultimo piano dove è stato ricostruito lo studio di Sereni con i mobili originali e i libri negli scaffali come li lasciò il poeta nel 1983. Disposti rigorosamente per collane.
Il paragrafo dedicato da Scaffai a Sereni e “il giovane Erba” è quello che maggiormente mi ha “intrigato” da un punto di vista strettamente poetico. Erba fu allievo di Sereni (di nove anni maggiore di età) al liceo Manzoni di Milano nel 1938, e ancora negli anni cinquanta il rapporto tra i due non era “alla pari”, tanto che – come ricorda Scaffai – in un passaggio della famosa lettera ad Anceschi vs Linea lombarda, Sereni annota di malumore che Erba “non sa parlargli d’altro” che delle recensioni “che di volta in volta lui vede del libro”.
Fortunatamente, sulle “beghe” personali, alla fine prevale la poesia, pur se non senza qualche polemica difficoltà. Nella raccolta Linea Kdel 1951 (per incidens: l’espressione Linea lombarda riesce ad Anceschi fondendo Linea K di Erba a Canzone lombarda di Sereni) la poesia “Tabula rasa?” presenta i versi: “Ho una cravatta crema, un vecchio peso / di desideri”.
Se l’espressione tabula rasa, come ci ricorda Scaffai, era già stata usata da Erba nella lettera inviata a Sereni da Parigi il 9 febbraio del 1948, “di mito della cravatta” parla Sereni in una lettera in cui il “professore” dapprima tratta malissimo l’ex allievo: “Ho ripensato spesso a te e anche alle tue cose: le quali, a furia di trovarmele sotto il naso, han finito coll’interessarmi nettamente di più che all’inizio”. Poi finisce quasi con l’abbracciarlo: “Infatti, se mi dà fastidio sentirti parlare di mito della cravatta, proprio la poesia in cui se ne parla nel modo più persuasivo m’è tornata alla mente assai spesso, tanto da farmi desiderare di averla scritta a suo tempo”.
Decisi pertanto di concludere la mia presentazione leggendo a Scaffai e al pubblico due poesie dedicate a Sereni: una recentissima (appare in Avrei fatto la fine di Turing, Donzelli, ottobre 2015), l’altra risalente alla morte di Sereni. E di mio padre: pure lui ufficiale di fanteria e prigioniero dal 43 al 45. Una generazione di uomini che la cravatta su camicia bianca la mettevano anche la domenica per andare allo stadio.

Vittorio Sereni ballava benissimo

Vittorio Sereni ballava benissimo
Con sua moglie e non solo.
Era una questione di nodo alla cravatta
E di piega data al pantalone,
Perché quella era l’educazione
Dell’ufficiale di fanteria,
Autorevole e all’occorrenza duro
In famiglia e sul lavoro,
Coi sottoposti da proteggere
E l’obbedienza da ricevere
Assoluta: “E’ un ordine!”,
Riconoscendo i pari con cui stabilire
Rapporti di alleanza o assidua
Belligeranza.
Ordinando per collane la propria libreria.

*

Di quando la giornata è un po’ stanca

Di quando la giornata è un po’ stanca
E cominciano le nuvole a tardare
Invece del nero all’alba che promette
Costruzione di barche a Castelletto con dei legni
Morbidi alla vista, già piegati.
Non con la ragione ma con quella
Che in termini di religione militante
E’ la testimonianza
Ti dico: tornerai a San Siro,
Sotto vetro la cravatta a strisce nere
Sul triangolo bianco del colletto
Come nella fotografia del cimitero.