Settembre 2018 – Pordenone

La poesia sorride e resiste – Pordenone: Settembre 2018

Un regalo di compleanno – Inedito

Present

Nella terra si perde la moneta
nel laghetto, nei pressi del laghetto
giunsi per riposare
la mia fuga maratoneta.
Non oso ripetere come si svolse,
la curva s’attorse dell’infosfera
ed era sincera, la vicenda dell’uomo
col sorriso emoticon dell’ottantotto.
Contiamo ogni vent’anni e siamo nella stasi
che qualcosa avvenga nel laghetto
oltre il riflesso e la noia e il rischio
che la bomba fosse fagocitata
dall’altezza e nel tragitto information
highways per blastare e dissare
in eterno l’altro, ogni altro
utile per essere distrutto
mentre riposavi la moneta
nei pressi del laghetto.

Ad Andrea

Cinque voci dal contemporaneo # 5 / Valerio Magrelli (su alfabeta2)

Artisti sotto la tenda del circo: perplessi

Andrea Cortellessa

valerio-magrelli-e-libreria-450x402Guida allo smarrimento dei perplessi è il titolo di una piccola raccolta di versi di Valerio Magrelli, dieci poesie uscite un annetto fa con l’accompagnamento di otto disegni di Francesco Balsamo nella collana “Carteggi letterari” diretta dal giovane poeta Gianluca D’Andrea. Come capita in questi casi, è l’occasione per fare il punto sul percorso quarantennale – se è vero che le prime tracce a stampa, del poeta ventenne di perturbante maturità, si trovano sulla rivista “Periodo ipotetico”, diretta da Elio Pagliarani, giusto nel 1977 – di quello che è ormai da considerare un classico, ancorché precoce, della nostra contemporaneità.

Per leggere l’intero articolo

BREVI APPUNTI SULLA FINE VII: “La pura superficie” di Guido Mazzoni, Donzelli, Roma, 2017.

mazzoni

Guido Mazzoni (Foto: Dino Ignani)

BREVI APPUNTI SULLA FINE VII: La pura superficie di Guido Mazzoni, Donzelli, Roma, 2017.

È come su una superficie pura, in cui certi punti di una figura in una serie rinviano ad altri punti di un’altra: l’insieme delle costellazioni-problemi, con i rispettivi lanci di dadi, le storie e i luoghi, un luogo complesso, una “storia ingarbugliata”

G. Deleuze

la puraL’impressione generale dopo aver letto La pura superficie di Guido Mazzoni (Donzelli, Roma, 2017) è quella di aver attraversato un percorso al distanziamento o, meglio, allo straniamento. Bene dice Cortellessa, recensendo il libro, che «a contare non è la visione del mondo che ha […] la forza dell’ovvietà: bensì le strutture, le immagini, le metafore impiegate per esporla» (A. Cortellessa, Nuda apparenza di uno come noi, «Il Sole 24 Ore – Domenica» del 01/10/2017).
Allora inaugurerei questa mia riflessione sul libro proprio da queste “strutture”, in primo luogo dall’approccio concettuale che, se non fa «visione del mondo», può però orientarci nel testo.
Induzione è quel procedimento del pensiero per cui l’esperienza del singolo (il “soggetto” in quanto termine, molto presente nella raccolta anche quando la finzione testuale ci porta a credere che a parlare sia una persona diversa rispetto al soggetto scrivente) conduce – necessariamente in passato, probabilmente nel pensiero moderno – a una legge universale, a un’idea che si sviluppa da un contesto definito.
L’operazione che Mazzoni inaugura con I mondi (Donzelli, Roma, 2010) e che si estende a La pura superficie, forma un dispositivo che per induzione si trasmette da un pensiero acquisito al mondo, attraverso un particolare sistema linguistico. Considerando superfluo disquisire sulla necessità o meno di questo procedimento, ne prendiamo atto con l’attenuante che ogni linguaggio possiede in sé l’evidenza della trasposizione e, quindi, della falsificazione.
Il “mero essere” di stevensiana acquisizione (a tal proposito, sembra inutile affermare quanto sul piano progettuale contino le inserzioni dallo stesso Stevens, perché manifestano con la loro presenza una giustificazione al non-senso dell’esistere nella scoperta del quale la poesia di Mazzoni ci conduce. L’invadenza del “significante”, per usare una terminologia abusata, subisserebbe la potenzialità affabulatrice del linguaggio in un’oscillazione costante tra reale e surreale, fino a un distanziamento – una crepa – che come nel secondo degli exerga kafkiani introduce alla separazione io/mondo che non si ha nessuna fretta di colmare), cioè l’insorgenza ideale di un mondo ridotto alla pura “nientificazione” – vivremmo in una sorta di bolla turbonichilista: «come se le cose accadessero nella sfera dove le masse si spostano» (Recife, p. 19) – pare scontrarsi con la voglia di nuova nominazione, in tal senso, almeno, parrebbero muoversi i testi narrativi della raccolta.
I mondi si chiudeva con un’acquisizione: Pure Morning, ultimo componimento di quel libro, metteva in luce, attraverso un assemblaggio fatto di inarcature in funzione narrativa, con un dettato addirittura armonico nella sue proporzioni nette, la necessità di rintracciare i segnali del “mero essere”, La pura superficie sarebbe, allora, lo sviluppo di tale acquisizione.
«Ogni vita è solo se stessa» e quindi «il tempo che si perde / per essere solo ciò che siamo adesso, / per diventare solo solitudine» (Pure Morning, in I mondi, cit., pp. 65-66) è il tempo di una mutazione. Divenire del soggetto relazionale in soggetto della – e alla – solitudine, con un richiamo fortissimo a Leopardi, alla sua riflessione sull’ermo, sul solitario, aggettivo che potrebbe incunearsi nel nesso avverbio-sostantivo-astratto inventato da Mazzoni nella chiusa de I mondi. Ma non è tutto. Se, infatti, consideriamo l’apparato di schermature (schermi che riappaiono con insistenza in La pura superficie e che fanno pensare al Carroll di Attraverso lo specchio) che ostacolano ogni riconoscimento – «quando la fila / delle auto si ferma e ci guardiamo / esistere dai finestrini, tra i fanali, / il loro cerchio nel cono della pioggia, dentro i secoli / che ora mi vengono incontro / dai campi coltivati, dai caselli / di Milano se la nebbia si dischiude» (Pure Morning, ibid., p. 65) – si chiarisce definitivamente, se ce ne fosse stato bisogno, il debito di Mazzoni per l’autore di Recanati: «e mi sovvien l’eterno, / e le morte stagioni» e una volontà sempre occlusa che tenta di rigenerarsi ma si discioglie a contatto col mondo (l’affiancamento a Leopardi sembra confermare, inoltre, il procedere per induzione sul piano del pensiero).
Occlusione, si diceva, così come interruzione (delle relazioni classiche) sono termini che confermano lo stimolo a una fuoriuscita ma, ancor di più, consolidano una controspinta di sfiducia nei confronti del segno, dovuta a una consapevolezza profondissima delle sue potenzialità d’inganno. Ma allora perché continuare a dire?
Con un lungo salto attraversiamo La pura superficie e cadiamo nel suo testo conclusivo per cogliere altri segnali, chissà se anche questi ingannatori. In Terzo ciclo (La pura superficie, p. 78) è in scena uno scambio relazionale, c’è l’io scrivente, sempre distanziato, e c’è un non meglio identificato “tu”, malato «in mezzo alle altre larve / nella sala della chemioterapia» (Ibid., p. 78). C’è in questo stesso distanziamento del soggetto un trait d’union con l’immane consapevolezza della fine (e del male), che l’utilizzo improvviso della prima persona plurale (che un senso ancora possiede e per niente insignificante) con la sua pregnanza unificatrice che supera le «parole» (intese, in questo caso, come puri segni) rende però problematico: «sappiamo entrambi che non vivrai, / sappiamo che non servono parole» (Ibid., p. 78). In questa sorta d’iscrizione sepolcrale, da porta infernale, lo slancio unificante è corroborato dalla coscienza della fine, infatti i riferimenti ad Antognoni o al «muro fuori filo» (Ibid., p. 78) specificano meglio un contesto che, nella sua gravità, trova appigli di contatto in «cazzate» (Quattro superfici, p. 76) aneddotiche, e che conferma la sua ambivalenza di senso nell’accumulatio asindetica semi-ironica (sbrigativa, perpetuante?) di altre “cazzate” nella chiusa:

Ma oggi non importa, siamo felici di esserci ancora,
di stare insieme qui, i maschi non piangono, le parole non contano.

(Terzo ciclo, p. 78)

In mezzo al grande arco testuale che va da Pure Morning a Terzo ciclo, si sviluppa, lo dicevamo, il dispositivo di La pura superficie: un apparato di 30 testi suddivisi in 5 sezioni con 4 intermezzi in prosa col ruolo di cerniera e cornice (ma non in senso unificante, lo diremo meglio in seguito). La sensazione suscitata da questa impalcatura è quella di un macrotesto concentrato su una stessa tematica, la desolazione contemporanea, facendo i conti con la mescidanza e l’ibridazione ad essa consustanziale. Ancora una volta, come già ne I mondi, è lo stile levigato su un tessuto multiforme, ibrido appunto, a convogliare l’attenzione del lettore. L’aneddotica è incasellata tra testi di rielaborazione delle informazioni e reinterpretazioni di Stevens in chiave contemporanea. In tal modo, la tensione è garantita nell’attrito tra testo e contesto, spostando l’asse dell’interesse verso la tessitura mortuaria del linguaggio, verso l’apparato (il dispositivo) che, così, si sostituisce al reale in un’inedita gerarchia di valori. Il testo morto supera il “mero essere” e manifesta la necessità per il soggetto di identificarsi con la “pura superficie” testuale.
Certo, ogni segno, nel suo puro esserci, può essere arbitrariamente frainteso senza alcun risarcimento per chi lancia il messaggio e questo è il cruccio del poeta, quello di scomparire nell’opera pur sapendo che non esiste nessun indennizzo di verità in essa.
La fallacia del segno, in La pura superficie, impatta il mondo contemporaneo, ne liquefà la linearità temporale e lascia baluginare nuovi piani di realtà. In questo modo si spiega l’inserzione di testi “onirici”, nuove dimensioni nella poetica raziocinante di Mazzoni.
In Uscire (p. 15), il testo d’esordio della raccolta e quindi in posizione strategica, ad esempio, la sovrapposizione è esplicitata nelle pieghe e negli spazi senza ancoraggio:

Da qualche anno le cose mi vengono addosso senza protezioni.

(Uscire, p. 15)

oppure

Spesso, quando parlate, io non vi ascolto,
mi interessano di più le pause tra le parole,
ci leggo un disagio che oltrepassa la psicologia, qualcosa di primario.

(Ibid., p. 15)

I destini generali si muove nell’indistinzione tra accaduto e capacità di percezione dello stesso, tra narrabile ed eticamente plausibile, nell’eccedenza di senso dell’evento. Angola, invece, ci presenta una moltitudine di «eventi illeggibili» (Angola, p. 37) e ancora Sedici soldati siriani, in cui il video descritto più che terrorizzare – i soldati del titolo vengono sgozzati – attiva qualcosa di primordiale «alla periferia della coscienza» (Sedici soldati siriani, p. 49). Infine, Genova (p. 63) in cui la realtà si mostra nella sua nuda esistenza e può trasformarsi in un girone infernale.
Da questi frammenti d’informazione, attraverso il doppio canale della presa diretta e del filtro (per lo più lo schermo, come abbiamo già detto), non si formano nuovi miti comunitari, bensì si sfalda il tempo (ad esempio la chiusa di Genova, dopo l’esperienza viva dei fatti del G8, recita: «per qualche settimana si sentiranno parte di un movimento immenso, un mese dopo si dissolveranno, dieci anni dopo saranno soli e incomprensibili», p. 67).
Da quanto appena esposto si evince che i testi-cerniera di La pura superficie rappresentano un’apertura – la crepa nel dispositivo di deleuziana memoria, così come deleuziane sembrano la “deterritorializzazione” e la a-radicalità emergenti nella raccolta e descritte da Deleuze e Guattari nel saggio del 1975 Kafka. Per una letteratura minore – in primo luogo di piani temporali, e, infatti, il passato ricade nel presente senza conseguenze magniloquenti (che sia un passato vicino o lontano non sembra fare alcuna differenza). Certo, è anche vero che le scelte del soggetto scrivente ricadono su eventi o “aneddoti” che possiedono una forza d’attrazione collettiva, dotati di una matrice archetipica – per lo più la violenza o, se andiamo più a fondo, l’indifferenza per l’alterità – che lascia una traccia sgorgante dalla crepa aperta, un mitologema o unità minima di significato, germe infinitesimale di un – nell’opera di Mazzoni ancora non si è chiarito con che valenza – infimo inizio.
Questo piccolo germe, la consapevolezza della banalità di un male che comprime un’epoca (dal Secondo dopo guerra a oggi), farà ripartire un racconto o abbandonerà il sentire alle sue derive? Detto in altro modo: il segno linguistico ha ancora necessità di essere formulato attraverso un intreccio che riattivi la relazione oppure i piani di realtà sono talmente sovrapposti che occorre un altro dispositivo comunicativo?
Certo, tali domande non possono che restare tali, perché è il transitare continuo dei segni a significazioni altre che fa il mondo e il soggetto che ne è parte.
L’operazione di Mazzoni, comunque, questo è certo, per ora non tenta nessun recupero – anche se alcuni passi testuali sembrano indicare diversamente, come ad esempio a p. 20 di La pura superficie, dove possiamo leggere di una madre arresa «a ciò che detestava», cioè a essere «una mamma come tante» e che «ora manda avanti il suo bambino», in cui quel “mandare avanti” non si capisce se abbia ancora valenze etiche classiche o se sia solo una metafora abusata introdotta per rendere manifesta la banalità dello stesso, aneddotico, componimento? – pur rivelando la sua ragion d’essere nella volontà di nominazione che si risolve nell’aneddotica “chiusa” ma vitale di cui abbiamo più volte parlato. In questa prospettiva il linguaggio trova spazio nella sua piccolezza:

Sono una piccola persona, nessuna fede
mi accoglie veramente, voglio molto poco,
questa specie di melma mentre viaggio
verso mia figlia, i suoi disegni infantili, il suo spazio riparato.

(Le cose fabbricate, p. 31)

Che sia questa “lingua minore” lo strumento per uscire dal nichilismo e continuare a fingere, ribaltando l’annominazione da cui eravamo partiti e con cui terminava I mondi, di non essere «solo solitudine»?

Gianluca D’Andrea
(Ottobre 2017)

Libri crepuscolari: 2 note – I. "Il rovescio del dolore” di Luigi Socci, italic pequod, Ancona 2013

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Luigi Socci

I. Il rovescio del dolore di Luigi Socci

rovescioIl libro di Luigi Socci Il rovescio del dolore è la testimonianza di un periodo, della nostra frammentaria contemporaneità, che potremmo definire “mortuario”. I testi della raccolta abbracciano il quindicennio 1990-2004 e ne rappresentano il resoconto verbale e stilistico:

Bisogna parlare dei morti
(assenze che di noi fanno polpetta)
perché c’è nella poesia
tanto così di morto per ciascuno.

(p. 68)

Ribaltamenti di senso, paronomasie, figure etimologiche, deformazioni verbali sono sintomi dell’involuzione linguistica a cui l’autore aspira e a cui affida a minore ad maius la funzione di appiglio pulviscolare (cioè crepuscolare, ironico) del messaggio relazionale.
Il rovescio del dolore procede per tappe slegate e ogni sezione agisce da minimo evento, “reagendo” all’illusione di una trama/trauma che sia ancora “legabile”. Emerge un racconto sfibrato ma inteso nella necessità di un’unica coerenza per balzi o, in estremo, acronica. Il tempo si frange in rivoli e intercapedini che ne formano la sostanziale verità:

La verità va preparata bene
che può sempre servire
un pezzo un altro pezzo avanza un pezzo
sembra che tutto funzioni per ora.

(Verace, p. 88, vv. 1-4)

L’esigenza di un contatto che si avverte perduto ma ancora necessario, come nel testo di p. 78, Toccami, nel disorientamento o nella desolazione a-direzionale: «Qual è il senso di marcia del deserto?» (Insabbiamenti, p. 65, v. 1).
Siamo dentro un passaggio temporale (un paesaggio) interrogante (postmoderno, ancora?), il soggetto si contorce ed evidenzia un disagio, senz’altro intervento se non la presenza testimoniale della propria dispersione, o meglio, sparizione:

Segato in due.
Scisso in sezioni cubiche.
Sparito.

(Silvan, p. 85, vv. 1-3)

L’azione si esprime in strappi convulsivi, sulla scissione; il linguaggio esacerbato in espressioni deformate dall’ironia, in un contesto performante, non sempre agonistico, spesso agonizzante. La parola, cioè, subisce il piano di finzione e si maschera arrendendosi all’evidenza del niente morale (il quasi nichilismo di ciò che fa del postumo la sua postura):

Uno si trova messo così, qui
a mezz’aria
appeso a un peso
nell’atto di levarsi
con una pinza uno sfizio,
vi scrivo dal fronte
spizio

(p. 77)

Il disagio è scia, bava e verso la fine del libro scopre il “coinvolgimento” del soggetto nelle vicende. Lo “spettacolo” esiziale di Ultima Prima al “Na Dubrovka” è la “messa in scena” di una realtà che si realizza adesso, cioè dopo che «il passo che separa la vita/ […] era fatto» (Ultima Prima al “Na Dubrovka”, p. 128, vv. 37-38).
Il rovescio del dolore si può leggere nel ribaltamento antieroico e “a-soggettivo” avvenuto nell’arco temporale abbracciato dai testi, per cui è plausibile parlare di un’epica “miniaturizzata” (Massimo Raffaeli, in postfazione, si esprime in questi termini sulla poetica di Socci) che rimpicciolisce i dati storici forse per renderli accessibili, leggibili, comunicabili, rendendo ancora più evidente, però, l’occlusione e il disorientamento, rischiando di concludere il reale nella microstoria dell’attenuazione senza slanci, in quell’abolizione d’infinito (cfr. Cortellessa) di spirito neo-crepuscolare (o, se si crede, post-crepuscolare).

Gianluca D’Andrea
(Dicembre 2014)

TESTI

Immobiliario

Le reliquie venerabili di un pollo
incollate da giorni al proprio piatto.

Dentro la lampadina il ghirigoro
che produce la luce è mezzo rotto.

Ronzano mosche di questi tempi
fuori dalla stagione delle mosche
in orbite piene di contrattempi.

Dalle patate i getti
si diramano in cerca
degli umori dell’aria.

Oggi non so le cose importanti
ma tutte le altre a memoria.

*

Il viaggiatore ignoto

Accappatoi fregati negli alberghi
saponi con i peli appiccicati
sfoghi d’acne da treno:
segni inequivocabili di viaggio
più o meno.

L’avviso ai naviganti era criptato.
Era evidente il posto era sbagliato.

Scelte per punto fermo
come riferimento
stelle cadenti e vento.

Era evidente il posto era sbagliato
col cane che non solo
non riconosce ma persino
staccare dal polpaccio è complicato.

Era evidente
il posto era sbagliato:
tizi mai visti
spazi ridotti, pieni di rischi.
non ho
amici con divani come questi.

Come in una morale
senza l’ombra di fiaba
era evidente io stesso ero sbagliato,
andato a finire
e tornato.

*

Certi rovesci

Il vento aspira l’aria, non la soffia
e lascia i corpi sparsi sottovuoto.

La foglia rimbalza in cima all’albero
la primavera retrocede a gambero.

La pagina si sbianca
l’inchiostro è risalito nella penna.
(bel risparmio)

Il fumo scende nella sigaretta
tornata intatta
come mamma l’ha fatta.
Fumo di meno e ho il pacchetto pieno.
(tutta salute)

E il morso che rinsalda ogni boccone.
La merda a riavvitarsi su nel culo.

dora è arod maria airam
paola sarebbe aloap alla rovescia
ma anna all’incontrario è sempre anna

Rovescio del dolore il suo discuore.
Allegri! Oggi si muore.

*

28 agosto 94

                                                                           per Franco Scataglini

Nerastro miramare
funereo zittarsi di triglie
bare a vela.

Onde con l’ombra al collo,
il loro andar di sale
ingozza il porto.

Cozze col cuore a pezzi
tette a lutto.
Il sole simultaneo
traduce sassi in terra
(grossi, di Portonovo; grassa di Tavernelle)

Curioso capolino
di vermi o cicche spente?
Dentro le sabbiature
lenta lebbra dei vivi.

Un morto vive altrove.

*

Dallo spioncino

Mi lascio questi occhi che ho
per vedere le ombre all’orizzonte,
dietro una lente rimpiccolente,
di molta gente.

Da questo buco
ho visto i testimoni per esempio
di geova le donne delle scale
il messo iettatorio
dell’amministratore condominiale.
L’ex-tossico in realtà tutt’ora tossico
cui devo un set magnifico
di spugne per la casa
all’aroma di pesce
ho spiato pensando
– esce o non esce? -.

Da questo varco
nella porta ci passa una scintilla
nero pupilla.

Ma provate a pensare
a una schiena che trema familiare,
ombra tra gli zerbini
pericolante all’inizio delle scale,
che va via in una bolla di vetro
di quelle con dentro venezia o san pietro
densa di un’aria unta, senza attrito.
Appesa al corrimano
convessa, senza fretta,
noncurante della targhetta
con scritto il mio cognome che si stacca.

Souvenir deprivato
di neve e di memoria
a un palmo in linea d’aria
di distanza illusoria.

Dispersa nel viavai
per sempre come al solito
restando e un po’ viandando
senza lasciapassare senza i visti
al trotto a dirotto allo sbando
in ritardo sui tempi imprevisti.

Al riparo del chiuso
la guardo come non si deve
internato al sicuro
dalla parte dove si vede.

Ma provate a pensare
come si contrae la vista
di fronte a qualcosa che è troppo vicino
provate a pensare
alla condensa sullo spioncino.

*

Questa poesia non è
per te né per nessuno
non lascia alone
ha l’aut. min. ric.
non odora di chiuso
e poi
non si fa i fatti miei
ha tutte le carte in regola
è ochei.

Questa poesia è bielastica
può essere una esse
o volendo un’ixelle,
questa poesia si stende
come una parte del corpo,
una pelle.

Questa poesia non quadra
il cerchio casomai
si acumina in un rombo,
questa poesia non è
per te che sparirai
prima che tocchi il fondo.

*

Ultima prima al “Na Dubrovka”

Il teatro russo degli anni ottanta
mi stanca.
Il teatro russo degli anni novanta
invece incanta.
Ma il teatro russo degli anni zero
è vero.

La realtà si realizza il passo è corto
tra la vita e il teatro prende corpo.

La scena dilagava in sala e a casa
veniva a chiamarci per la catarsi
per renderci partecipi (spettatori carnefici)
dell’irripetibile evento.
Imparavo a memoria la mia vita
come una vittima di talento.

Quella sera era meglio se non ero
in abito nero per l’occasione
come a una prima i capelli in un velo
la vita ristretta da un cinturone.

Io quella sera
proprio io non c’ero
e se c’ero dormivo e morivo
già cascavo dal sonno e mi gasavano
(posto 12 fila C)
la testa mi andava giù.

Epidemie di tosse
rumore di giunture che disturba
la già pessima acustica, asfissiando
è difficile farsi sentire.
L’emissione vocale del morire
non arriva alle ultime file.

Nel personaggio a cui davo la vita
mi identificavo alla perfezione:
il mio cadavere in carne e ossa
in attesa di identificazione.

Centinaia di comparse disperse
rivolevano i soldi del biglietto
perché il passo che separa la vita
ora era fatto.

Una cappa di fumo scendeva dal soffitto
come un effetto speciale reale
la mano si poteva allungare
per vedere se tutto accade.

Mi confondo nei ruoli.
Mi confondono i ruoli.
Mi credo e mi capisco.
Dico l’ultima poi mi finiscono.

BREVI APPUNTI SULLA FINE III – L’età dell’ansia: “Il sangue amaro” di Valerio Magrelli, Einaudi, Torino 2014

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Valerio Magrelli

BREVI APPUNTI SULLA FINE III – L’età dell’ansia: Il sangue amaro di Valerio Magrelli, Einaudi, Torino 2014

Il sangue amaro - MagrelliIn questo terzo libro di transizione, dopo Didascalie per la lettura di un giornale (Einaudi, Torino 1999) e, soprattutto, Disturbi del sistema binario (Einaudi, Torino 2006), riusciamo a scorgere minimi tentativi di apertura al mondo, timidi però, perché è la crisi del soggetto a farsi più profonda. La martellante auto-riflessività (funambolica, se si pensa ai virtuosismi tecnici sempre evidenti nei lavori di Magrelli e che, coraggiosamente, corrono sul filo dell’autoreferenza) esaspera le conseguenze di una mise en abîme perpetua dell’identità, nell’esubero del rispecchiamento, nell’arrancante storpiatura provocata da un  tempo che, divenendo sempre più incomprensibile, impone per necessità una continua tensione.
Si ripetono le scelte stilistiche (come in Disturbi del sistema binario, da cui alcuni testi sono estrapolati e rielaborati), il ricorso, sempre ossessivo, alle figure d’iterazione. Alcuni esempi a caso: «Schwitters-paguro/ Schwitters-bernardo/ Schwitters-paguro-bernardo./ Che idea, abitare dentro una scultura!/ Che idea, traslocare nell’opera! […] chi di voi è l’animale?/ chi di voi è la conchiglia?» (Due artisti tedeschi – Merzbau, p. 8, vv 1-5 e 8-9) per cui la facondia di anafore e anadiplosi inclina alla cadenza della filastrocca, alla teoria litanica che ipnotizza per stordimento. Ancora: il componimento Welcome (p. 20), nella sua elaborazione complessa, intrecciata, concettosamente barocca, per cui le parole-rima si ripetono identiche alla fine delle tre quartine, così come nel primo emistichio di ogni verso (si tratta di martelliani con chiari richiami all’alessandrino, alla simmetria doppia, la duplice copia di un verso che si ripete su se stesso, così caro al medioevo francese e che qui possiede echi crepuscolari), estremizza una tensione claustrofobica. La forma chiusa, il gioco epistrofico estremo (cui si aggiunge il rinforzo numerologico delle stesse otto parole-rima che richiamano il titolo della sezione in cui il testo è inserito, Otto volte Natale), sono indizi che il grande tema de Il sangue amaro sia il tempo, o meglio, il tempo che passa e, lo abbiamo già accennato, il tempo perpetuo delle epoche di transizione:

Welcome

Dio delle baraccopoli, Gesù dei clandestini,
nato nella favela, ultimo fra i bambini,
creatura della notte, amato dai reietti,
scintilla nelle tenebre, abisso degli eletti.

Gesù di baraccopoli e Dio dei clandestini,
nell’ultima favela neonato fra i bambini,
amato dalla notte, creatura dei reietti,
abisso nelle tenebre, scintilla degli eletti.

Abisso e baraccopoli, scintilla e clandestini,
quanto amato un favela!, creatura dei bambini,
ultimo nella notte, neonato fra i reietti,
Gesù dentro le tenebre, Dio di tutti gli eletti.

Riflessione sul tempo già presente, lo abbiamo visto, con sviluppi sempre negativi, in Disturbi del sistema binario, a confermare il legame stretto tra quell’operazione e la presente sotto l’aspetto della transizione e dello scorrimento. Il mutamento epocale è richiamato in un testo, un acrostico, e si risolve nello scarto ambivalente che inverte una tendenza:

Niente funerali di Stato per Sanguineti
ovvero
Le ceneri di Mike

Per Andrea Cortellessa

Mi sembrava di dover celebrare una morte,
Invece sono qui a piangerne due;
Kyrie eleison per l’Università
E per l’alfiere della sua alterità.
Bello non era. Un Bronzo di Riace,
Ostentava: «Dei due, quello che più vi piace».
Nell’Aula Magna della Sapienza
Guizzava la civetta dell’alta sua sapienza,
Innesto dello Studio sull’amata Poesia,
Ossia: metà cultura, metà idiosincrasia.
Ripeto: oggi perdiamo sia lui, sia l’Accademia,
Nel Tele-Stato che scarta un Professore
Osannando la merce e il suo pastore.

(p. 7)

L’acrostico che appare nelle iniziali dei versi è un nome simbolo, quel Mike Bongiorno che è «la merce e il suo pastore» (v. 13), cioè la sostituzione dell’uomo di cultura con quello popolar-massmediatico per il quale si scelgono i funerali di Stato. Si rileva, in tal modo, il corto circuito avvenuto sul piano dei valori della nostra società, un vero e proprio ribaltamento etico. Così, la fase transizionale, il salto inflazionario che il nostro mondo compie, evidenzia il suo spessore; quella crisi, cui rimanda anche la scelta dell’acrostico come forma testuale (ellenismo, poesia cristiana delle origini e medievale, ecc.), che rispecchia, non troppo lontanamente, le condizioni di un universo presumibilmente destinato alla sua fine entropica o alla ripetizione in una ciclicità infinita.
La paura, che ha condotto l’uomo alla trasformazione relazionale delle origini, è tema principale della terza sezione de Il sangue amaro. In Timore e tremore sembra espandersi l’anamnesi, la storia delle idiosincrasie dell’autore che si compongono ancora di disagi psicofisici e montante terrore per l’alterità. I momenti di rischio, pur moltiplicandosi, presentano i minimi spiragli d’apertura cui accennavamo all’inizio di questa riflessione. Si avverte la necessità relazionale, il freddo solipsismo delle origini trova i suoi attimi di disgelo:

Nei bagni pubblici

Le scritte nei bagni pubblici
mi dicono il dolore
del giovane che scrive,
solo, nei bagni pubblici.
Solo, con la scrittura
di chi l’ha preceduto,
in un colloquio muto,
fitto, nei bagni pubblici.
Anch’io una volta ho scritto,
solo, nei bagni pubblici,
affidando il dolore
agli insulti peggiori.
Qui si scrive soltanto
di odio, nei bagni pubblici,
ma di un odio che gira
come una sigaretta fra compagni.

(p. 26)

Una ripartenza, in direzione comunitaria, dello strumento linguistico e della poesia, appare, infima, nei luoghi della solitudine di cui il nostro tempo è pieno zeppo (non tralascerei di fare un accenno ai profili dei Social Network, ipostatizzazione alla rovescia della solitudine, anzi ricircolo continuo della stessa, dal concreto all’astratto e ancora al concreto e così via). Alla fine di Disturbi del sistema binario, emergevano «ultracorpi» invasivi, incomprensibili, «Creature biforcate e logo-immuni» (vedi Post scriptumAddio alla lingua I e II, in Disturbi del sistema binario, op. cit., pp. 74 e 75), adesso «si scrive soltanto/ di odio, nei bagni pubblici,/ ma di un odio che gira/ come una sigaretta fra compagni» (vv. 13-16), cioè, anche se in negativo, un contatto si crea, pur non accennando a incanalarsi in positivo, oltre il contagio.
Anche affrontare l’amore, soprattutto quello familiare, nella visione critica e disillusa di Magrelli, potrebbe farci immaginare una rivalutazione del contatto: «allora la presenza di gravità dev’essere massima/ almeno come quella dell’amore» (Se tuo figlio si torce in una carrozzina, p. 27, vv. 5-6). La gravità, il peso dell’amore, quel «tremendo tesoro/ che fa argine/ sul ciglio del non-essere» (Cerbero, p. 33, vv. 17-19), riporta la riflessione sul piano dell’esistenza “in comune”, plausibilità di un desiderio che si scontra con la non accettazione del sé. Eppure il senso dell’esistere, un tempo, sembrava originarsi proprio da questa basilare accettazione, interpretabile poi come dono e responsabilità per il peso del vivere stesso, ma erano tempi di terra e religione, elementi non più pertinenti alla nostra contemporaneità.
L’ambivalenza prosegue e a Timore e tremore segue un altro gioco formale, rappresentazione di ulteriore distanziamento relazionale, nell’ineluttabilità della fine di quel mondo a cui abbiamo appena fatto riferimento. L’ipertesto, nelle intenzioni dell’autore, partendo dallo spunto dell’evento di lettura, solitario e per certi versi alienante, riflette proprio sull’impossibilità della relazione, così nel testo iniziale leggiamo: «se amore è la distanza che ci chiama/ e insieme la paura di varcarla» ([Matrice], p. 37, vv. 10-11). Nella più antica tradizione lirica, il tema della distanza dall’essere amato esprimeva la dimensione, nonché l’accettazione, di un ordine sociale e civile, assumeva, per segnali, la possibilità di una lettura del reale, riconosceva una gerarchia di valori per cui la distanza tra il cantore e il potere (il signore feudale ma anche Dio) si risolveva nell’aspirazione di un superamento migliorativo concretizzato dal canto e dalla parola. La frammentazione moderna e la dissoluzione post-moderna dell’ingombro identitario riverberano esacerbate in questo poemetto della separazione, che si conclude nell’impossibilità del contatto:

XI.
e insieme la paura di varcarla

Ma c’è un divieto.
Il desiderio d’essere sradicati da sé,
fino a confondersi con la creatura amata,
si scontra con la forza di gravità che ci governa.
L’io si agguanta al suo io e non si lascia andare.
Da qui la nostalgia per la persona
con cui non potremo mai ricongiungerci
nel paradiso perduto della lettura,
nel paradiso perduto che la lettura addita
sul fondo incantato del non-io.

(p. 48)

L’abisso naturale della nostra concretezza appare inscalfibile, soprattutto per chi ha sempre vissuto il corpo come un peso. La materia si fa ingombro ma il paradiso è perduto per sempre, proprio perché la caduta nel corpo è ineluttabile, gravitazionale, costringendo il mondo al suo degrado “infero”.
Tra silenzi e cadute, tra fuga e presenza, accettazione e rifiuto, si esasperano le movenze di un tempo, il nostro, recluso nel suo percorso senza sbocchi. Così in Annopenanno. Un calendario, sezione che chiude la prima parte del libro, assistiamo, seguendo l’antico genere, a una ricapitolazione della vita, dei suoi alti e bassi. La circolarità emerge dalla numerologia: dodici stazioni pagane, attraverso i dodici laicissimi mesi dell’anno (come dodici sono le sezioni della raccolta), in cui quello centrale, Giugno, importante per il poeta, riassume le possibilità di un ritorno sempre in ritardo, mutevole, un anello di spirale:

Giugno (1957-2007)

I Am A Strange Loop
DOUGLAS HOFSTADTER

Cinquanta volte giugno,
e sarei io, l’anello?
L’anello è lui, questo tempo elicoidale
che torna su se stesso
sempre uguale e uguale mai,
mio giugno, anello solstiziale
di sangue, di nozze, di addio,
eterna vigilia di quella vacanza
che infine giungerà pura
nudissima luce definitiva,
mio sabato dell’anno, rompendo
finalmente l’anello sisifale.

(p. 65)

La seconda parte de Il sangue amaro si apre con una sezione più intima, Piccole donne, con chiari riferimenti ad alcune fasi della vita della figlia del poeta, o meglio, della vita del poeta che osserva la figlia, dalla distanza presente in altri passi della raccolta e che abbiamo avuto modo d’incontrare anche in Disturbi del sistema binario. Anche qui l’ossessione temporale si presenta col suo carico d’irreversibilità e violenza: «Perché la guardo?» – riferito a una cicatrice minuscola sulla guancia della figlia, provocata da una compagna – «Solo per ripetermi che il Tempo/ lì è trascorso, affidando il saluto ad un’unghiata» (Fine come un capello, p. 76, vv. 14-15).
In Otobiografia s’incrociano, nel segno della sottostima, di un understatement “pinzillacchero”, il passare del tempo e le idiosincrasie di matrice sonora, altro segno di continuità (e ripetizione ossessiva) nell’opera di Magrelli, al limite dell’acufene schizoide: «La verità è diversa:/ mentre mi punto alla tempia quell’attrezzo/ che sembra una pistola,/» (riferito a un vecchio phon malridotto) «viene fuori il racconto di storie terribili,/ fucilazioni, il pianto di bambini./ È come una confessione non richiesta,/ una registrazione spedita per errore./ Che c’entro, io, con tutto questo sangue,/ io che mi voglio solo asciugare la testa?/ Ormai ci penso due volte, prima di adoperarlo,/ prima di sprofondare in quell’orrore/ e assistere impotente a certe scene./ Meglio bagnato, allora./ Mi verrà il torcicollo? poco male» (da Rumore, fa’ silenzio!, pp. 85-86, vv. 36-49).
Rumori e suoni di mancanze o presenze eccessive, deformazioni acustiche che amplificano il senso di alienazione, riducendo ogni slancio del soggetto che resta impaniato nella distruzione e nella perdita, nella ripetizione che immobilizza, come nella vicenda della città peruviana di Cahuachi ricoperta di fratture (anche sonore se consideriamo i flauti spezzati), o come nel «suono che si leva uguale,/ il Sempre-uguale» di Suites inglesi (p. 91, vv. 10-11).
Occorre adesso aggiungere che il ripetersi di temi e motivi è speculare alla struttura di molti testi (in cui forme strofiche e numero di versi tendono ad accostarsi in serie doppie) e all’architettura dell’intera raccolta. I dodici mesi dell’anno come le dodici note di un piano (come ci avverte la Premessa a p. 59 nella sezione Annopenanno), il tempo e il suono, iterazione e minimi slanci d’apertura in sezioni che alternano continuamente alti e bassi – piano e forte, appunto – in successione, come in una scansione dodecafonica che vive di accostamenti ambivalenti, senza guide tonali. Serie che si presentano strutturate, preparate (non per niente le note ci avvertono copiosamente che i componimenti de Il sangue amaro sono in gran numero d’occasione, frutti di riciclo testuale). Quest’impostazione strutturale sembra utilizzata in funzione dissacratoria (ricordiamo gli studi di Magrelli sul dadaismo), per tentare, in questo modo, di rispondere alla crisi antropologica in atto. Il gioco degli accostamenti, però, pur concretizzandosi in una testimonianza, non presenta sbocchi all’impasse critica, siamo sempre dentro la paura di Timore e tremore, non ha seguito il monito attribuito a Pagliarani: «affidavi alla nascita/ la parola segreta di ogni storia:// CONTINUA» (Due poeti italianiPagliarani sul Niagara, p. 6, vv. 13-15). L’inghippo relazionale consisterebbe in un’attesa? o non può accettare il nesso etico della responsabilità del singolo per l’alterità per correttezza epistemologica? Forse anche per questo Il sangue amaro continua sulla strada della transizione, verso un limbo che ha tutta l’aria di ripresentare le problematiche novecentesche con un surplus di miopia perseguita, quasi autoimposta, come un limite costruito per circoscrivere la complessa leggibilità del presente e del prossimo futuro.
La sezione Il policida ha accensioni “civili”, traspare un senso di pietas claudicante per i senza-lavoro (i giovani delle pp. 97 e 98), per le vittime del lavoro (l’incidente alla ThyssenKrupp di Torino del 2007, p. 99), oppure l’astio senza invettiva per le oscene manipolazioni burocratiche (I necroburi, p. 100) e per le altrettanto oscene compromissioni nella storia recente della politica nazionale (i due indovinelli che vanno sotto il titolo I guanti di Nesso, a p. 101, indicanti, attraverso il riferimento mitologico, l’ambiguità del messaggio, per cui la camicia del centauro si trasforma in un referente che porta con sé il seme – o sema – della dualità, in quei guanti che conservano nel veleno celato l’uniformità e l’impossibilità della scelta).
La formula dell’indovinello ritorna, come citazione, nella sezione La lezione del fiume, poemetto in forma di rondinets, cioè un tipo di composizione che deriva dal rondeau francese, medievale (ancora un rimando all’era di mezzo) e poi barocco. Sempre epoche di passaggio, transizionali, come il fiume in questione, inteso come vita, dimora esistenziale, come metafora iperbolica del sangue che dà il titolo alla raccolta (il quale manifesta l’ambivalenza quasi ossimorica e circolare di un proverbio, per cui la vita, rappresentata dal sangue, è abbinata a un aggettivo che ne illustra la forza stringente e negativa). Così il richiamo al Sinfosio dell’Anthologia Latina (VI sec. d. C. – Alto Medioevo, tarda latinità, ancora periodi di transizione così com’è transeunte il fiume-esistenza, immerso già nella sua fine) è collegabile ai diversi enigmi che l’esistere pone, ma anche alla vita del poeta che abita la dimora della sua poesia:

XIII. Pesci in poesia

Ancora non ho detto della fauna, della flora del fiume,
il fervore di creature brulicanti che vivono nel flusso,
che vivono nel dolce. Da qui, l’indovinello di Sinfosio:
C’è una casa sulla terra che zampilla e ha voce chiara
È una casa che rimbomba, ma il padrone, muto, tace
Tuttavia corrono insieme, il padrone con la casa.
Questo è il pesce di fiume
che tace nel fiume che mormora,
che nuota nel fiume che nuota.
E il fiume medesimo, pesce-matrioska,
trascina, saltellante e canterino,
il popolo natante insieme a sé.

(pp. 112, 113)

La nostalgia del ricordo, l’evidenza della fine, emergono anche nella sezione Paesaggi laziali, in cui la vicinanza al nulla entropico (o si tratta di metamorfosi brulicanti e, per questo, ancora non chiaramente leggibili?) si presenta in componimenti che contengono tematiche di estinzione: della periferia urbana (Principe delle Volpi!, p. 117), della lingua che si parlava e non si parlerà più (Invettiva sotto una tomba etrusca, p. 118) perché «Adesso parleranno tutti uguale» (ibid., v. 1), in un cupo pessimismo che riflette sul futuro della lingua italiana. Estinzione del rito mortuario, Il funerale laico (p. 119), gioca ancora con la metafora del fiume-esistenza, per cui noi tutti «aspettiamo/ sulle rive del Nihil» (vv. 20-21) una fine che è già avvenuta, «la nuda Verità» (v. 14) del nulla che ci ha trasformato in morti in vita.
L’ossessiva ambivalenza, ma anche confusione, tra scomparsa e sopravvivenza raggiunge il culmine nei versi di Pasqua (p. 122), etimologicamente ancora un passaggio:

Pasqua

In una Pasqua azzurra e solitaria
(la città vuota, la mamma ammalata)
decido di portare mio figlio di sei anni
in bicicletta, lungo il fiume, a nord.
Via per il Pantheon, culla funeraria!
(nessuno in giro, la strada ventilata)
e dritti fino al Tevere, per scordare gli affanni,
luccicante e leggero da farsi in pedalò.
Ma dopo il Foro Italico, dalla ricca statuaria
(la ciclabile scende, più buia, malfamata)
un villaggio di nomadi, fra le baracche e i panni,
ci piomba addosso muto, con lamiere e falò.
Poi la pista risale in una curva d’aria
(noi ci voltammo indietro, la minaccia sventata)
trasparente di luce, lontana dai capanni
degli stranieri – zingari, clandestini, macrò.
Così in quella giornata raggiante e leggendaria
(per la nostra famiglia, sebbene menomata)
restò quel punto nero, vergogna, disinganni,
fratellanza, paura, odio, pena, non so.

(p. 122)

L’ultimo verso, elencazione, asindeto senza climax, se non neutralizzante in quel finale «non so», apre all’ultimo accostamento dodecafonico del libro, all’ultima sezione che riprende l’accordo incipitario espresso dal titolo. Il sangue amaro si apre con la dichiarazione lucida, aperta, del poeta, di una coerenza che dura da sempre, per cui produzione e vita sono legate nell’ambivalenza, il suo «Sangue Amaro./ È una specialità della casa, sin dal lontano 1957» (Sangue Amaro, p. 125, vv. 7-8). Così anche la poesia è vita di un’ombra o ombra della vita (altra eco barocca), in sostanza «lo stampo che porto dentro me,/ stampo del mondo impresso a me nel mondo/ e che mi fa essere al mondo/ soltanto nella forma dello stampo» (Invisibile e invincibile, p. 127, vv. 2-5). Persona è la sua ombra, le sue ombre che allontanano dal matrimonio col mondo, per cui è necessario un filtro (pozione magica) chimico che stordisca il disorientamento del soggetto:

Le nozze chimiche

Queste che prendo gocce
con tanta religiosa compunzione
sono i miei testimoni
per le nozze col mondo.
Soltanto grazie a loro posso stringere
un patto d’amore col mondo,
perché solo con loro reggo l’urto
della sua illimitata ostilità.
Elmo fatato: mio padre non lo aveva
e morì, prima ancora di morire,
incredulo, indifeso ed indignato,
sotto i colpi del mondo.

(p. 128)

L’unione è spezzata in definitiva, senza apparente rimedio, il poeta è solo «testimone alle nozze/ fra la Mancanza e la Ripetizione» (Piccole stanze d’albergo, p. 134, vv. 7-8), ultime divinità del tempo presente.
Proprio la ripetizione, infatti, raffigurata in un’interpretazione circolare dell’esistere, chiude il libro:

Sul circuito sanguigno

È come nel sistema circolatorio:
il sangue è sempre lo stesso,
ma prima va, poi viene.
Noi lo chiamiamo odio, ma è solo sofferenza,
la vena che riporta
il dono delle arterie alla partenza.

(p. 136)

Circolazione, ripartenza continua, che potrebbe scalzare la mancanza nonostante l’ostilità del mondo (dell’Altro), proprio nella sofferenza della ripetizione. Ma dovremmo essere in grado di sopportare il sacrificio dell’apertura, il dolore in essa implicito anche in termini di consapevolizzazione delle facoltà falsificatrici del linguaggio, anzi solo questa consapevolezza potrebbe permettere lo slancio che consente di non girare più a vuoto in quella «stagnazione della vita/ infestata di morte» (La guace, in Disturbi del sistema binario, op. cit., p. 5, vv. 6-7), cioè in una maniera linguistica in cui l’occhio del soggetto non è più capace di illuminare e lottare per il reale, ritrovandone la grazia. Allora, se anche la grazia è morte, occorre esporsi senza difese alla sua deformazione.

Gianluca D’Andrea
(Febbraio – Marzo 2014)