Istantpoetry #7

«Se l’umanità avrà fortuna
gli archeologi delle macerie della storia porteranno alla luce
ancora qualcosa della nostalgia di una cultura universale.
Se l’umanità avrà ancora fortuna saranno uomini
gli archeologi sulle macerie della storia».

Erich Fried

istantpoetry 7

O ectoplasmi (Fotografia ed elaborazione di Gianluca D’Andrea)

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LETTURE di Gianluca D’Andrea (45): ROCKY O DEL MOLTEPLICE INDIVIDUALE (UN RACCONTO) – 6ª parte

balboa

Rocky Balboa – una scena

di Gianluca D’Andrea

Il soggetto della solitudine – orientato nella percezione della stessa solitudine e nell’acquisizione dell’assenza – è il corrispettivo della presenza imposta: il soggetto-maschera che preferisce mimetizzarsi nella materia del suo operato, senza affacciarsi mai dal testo, perdendosi nella sua tessitura.
Il soggetto in questo caso è nello smarrimento, nella selva del linguaggio, evitando il senso nell’iperproduzione di forme.
Nel caso di Marco Giovenale (1969), la programmatica ottenebrazione del soggetto si trasforma in dispositivo che, nella finzione grammaticale della scomparsa, recupera il contatto comunitario in una pietas laica della marginalizzazione di tutti i soggetti: «posso così entrare in questo / gradiente di pianeta che lui / ama, lei ama, l’aria è mite» (M. Giovenale, Shelter, 2010).
L’affermazione di una fuoriuscita dall’impasse identitaria, un tentativo di risposta al monadismo e alla frustrazione della solitudine (quel solipsismo che comporta la scomparsa e che, lo abbiamo visto, è il risultato di un percorso più che quarantennale), è forse l’ossessione più consistente per le generazioni nate negli anni Settanta. L’unica risposta all’alienazione delle coscienze prodotta nella seconda metà del Novecento e che ha condotto a un allontanamento graduale ma costante dell’individuo dalla vita comunitaria, risiede proprio nella presa di coscienza di questa stessa alienazione.
Riconsiderare il mondo, riformulando un contatto, per quanto agonistico, che confermi la presenza dei due versanti relazionali, per cui il soggetto sia parte in causa, né predominante ma neppure marginale, del rapporto, sembra il compito ereditato dai poeti nati nell’ultima fase del XX secolo. Questo “compito” si sviluppa in diversi atteggiamenti, con diverse prospettive, ma in maniera diffusa proprio nella generazione dei “Settanta”, che la critica di almeno un decennio fa vedeva apaticamente schiacciata sulle acquisizioni dei padri (in particolare nella conferma del disorientamento e della “dispersione” dei nati negli anni Quaranta e Cinquanta, cui si è fatto qualche cenno), quando invece si pagavano le conseguenze di una maturazione “ritardata” dalla culla del benessere illusorio, abbiamo visto col riferimento a Rocky, d’epoca “reaganiana” (e che ha strascichi così duraturi da riflettersi anche nelle scelte di poeti nati negli anni Ottanta e, addirittura, Novanta, ma non è questo il luogo per approfondire anche in questa direzione).
La consapevolezza raggiunta del proprio “compito”, dicevamo, sta portando questi poeti a una produzione sempre più decisiva per la “fuoriuscita” e il transito a un mondo che, nonostante le sue ombre, può continuare a fare “comunità”. Nella parcellizzazione e nella frammentazione risiede la potenzialità del “mondo a venire”, nella non azione e nella presenza marginale è l’infimo inizio di nuove prospettive.
In pratica è nel cammino, nello spostamento, che si attua la “rivoluzione” della relazione con l’esistere e la sua ombra sempre incombente.
In Italo Testa (1972) possiamo leggere ad esempio: «o l’ombra che di spalle divora / il fianco, il vano della luce / che ti assale e a morsi ritaglia / nell’agone della stanza, ritta / e in attesa, le braccia lungo il corpo, / i piedi a contatto del suolo» (I. Testa, La divisione della gioia, 2010), brano in cui è presente tutto l’apparato della lotta in corso dell’adesso per una fuoriuscita dall’impasse relazionale (“la stanza”) nel raggiungimento di un contatto, nonostante la presenza (allegorica?) di un’ombra “divorante”, antagonista.
Cammino, dicevamo, che conduce a incontri imprevisti (fuoriuscita dalla stanza – «camminano / rasenti ai muri / sugli autobus / si siedono tra i primi / non parlano…», I. Testa, I camminatori, 2013 – e constatazione di presenza dell’altro, appercezione, non solo auto-percezione), a “qualcosa” che “accade”. «Il centro è qui ed è ovunque», diceva Pusterla nel 1994 (F. Pusterla, Le cose senza storia, cit.) e l’ultimo titolo di Testa è, quasi risposta, Tutto accade ovunque (2016), con la differenza, cui facevamo riferimento, tra percezione e appercezione, e il risultato di una consapevolezza alla seconda potenza emergente da una totale disillusione: «anche oggi ho visto qualcosa / tra la crepa e l’azzurro / anche oggi ho visto qualcosa / qualcosa» (I. Testa, cit., 2016).