
Franz Wilhelm Seiwert, Mann mit Maschinen (Fabrikarbeiter), 1924
di Gianluca D’Andrea
«La poesia è sempre la testimonianza di un fallimento».
(Ben Lerner, Odiare la poesia, 2017, p. 14)
Lasciare spazio, forse è questo il vero senso di quella cosa strana che chiamiamo poesia. Colmare il vuoto dell’aderenza al reale, o la tensione di cogliere l’altro per riconoscersi. Il rispecchiamento, ripudiato in ogni manifesto d’avanguardia, continua a riemergere dal testo, e, nel caso delle stesse avanguardie, si “fa” a sua volta manifesto, colma lo spazio di ideologia, di io-poeta.
Lasciare spazio, invece, consisterebbe nella resa definitiva di quella personalità determinante che il soggetto scrivente è, portandosi dietro la fine della narrazione fondante, dell’epica? Narrazione in versi e canto sarebbero solo manifestazioni egocentriche che non lascerebbero spazio all’altro?
Eppure l’altro si fa spazio, rintracciabile nella dimenticanza di sé o nel tentativo di testimonianza di una scomparsa che la narrazione epica conserva (quella dell’io storico, che tende a dissolversi proprio nella narrazione).
Comunque s’interpreti la possibilità o meno della scomparsa del soggetto, il rischio di fallimento è sempre in agguato, a tal punto consistente da significare, con ogni probabilità, la vera necessità della poesia: quella di ristabilire un nesso con il non senso dell’esistere, lo sforzo di cogliere il mondo nella consapevolezza della sua irraggiungibilità.
In quel fallimento sembra risiedere un’ultima speranza, per cui, paradossalmente, la parola centrerebbe, proprio con la sua fallibilità, la fine di ogni ideologia, la fine di ogni centralità dell’io. Nell’umiltà che constata definitivamente questa scomparsa, la poesia chiude i conti con la fine, apre un nuovo spazio, si arrende alla sua potenzialità di non dire e lascia spazio a un nuovo racconto.