LETTURE di Gianluca D’Andrea (38): COLLINA

cezanne

Paul Cézanne, Mont Sainte-Victoire visto da Bellevue (1885)

di Gianluca D’Andrea

«Ogni sabato, al mattino, con i due terrier Lakeland, giusto per fare una passeggiata, arrivavi in cima a una collina e te ne stavi lì a braccia aperte contro il vento a guardare i cani…»

(Brian Friel, Tutto in ordine e al suo posto, 2017, p. 173)

L’epoca degli spettri è anche il tempo affondato nella sua immagine. Ecco perché il passato non possiede una dimensione nostalgica, ma è inghiottito nel presente costante, monodimensionale, fissato ma sfuggente nella sua ambiguità liquida.
Forse il fonte di Narciso si è trasformato in un acquario privato, ricco di confort e cure: il regno del solipsismo e dell’illusione di presenza.
L’assiduità e l’insistenza sul se stesso ricoperto dai flutti casalinghi, dagli schermi riflettenti, dalle acque mosse dall’artificio, purificate (o abbellite) dall’apparato di filtri, è il nuovo paradigma della storia e, quindi, il nuovo racconto.
Sotto la superficie liquida non occorre la parola ma il segnale, l’immagine – forse accattivante, forse disperata – lanciata per captare l’attenzione dell’altro e che risponde, mi verrebbe da dire per reazione, alla scomparsa.
Non so se riuscirò a immergermi completamente nell’acquario della scomparsa, per un senso d’apprensione o incapacità respiratoria (cos’è la libertà se non un limite d’accettazione, una resistenza insufficiente?), ma la parola per me possiede il senso della fuoriuscita, della traccia o del raccordo attraverso il ricordo. Il racconto e il ritmo slacciati dal fissaggio dell’istante. Se l’immagine è testimonianza, quindi posa mortuaria da lasciare al futuro, la parola, pur testimoniando, lo fa sfrangiando il tempo. Essa è viva proprio nella potenziale perdizione del senso, non è solo “testimoniale” ma vitale come un richiamo che può vibrare nel vuoto, diversa dal silenzio reclamante nell’esubero, nel troppo pieno, dell’immagine.
La parola richiama una scomparsa perché si attivi una presenza, l’immagine simula una presenza nell’avvenuta scomparsa. Non esiste una distinzione etico-estetica tra parola e immagine, per ora siamo dentro la loro commistione o separazione nel mutamento.

La collina

luce la luce di Romeo
Paradiso, VI, v. 128

Nessun sentiero al pellegrino,
al suo disdegnoso ribellarsi, ora che vedo
nel ricordo la collina dove il mistero
e l’osso di capra fanno del cadavere
una scoperta.
Inscena lo schianto di paesaggi
nella memoria, la caduta
scivolando nella scarpata e portando
in salvo il corpo. Ecco
quello che interessava tutti i ragazzi,
l’avventura che avveniva e il mondo
nuovo che leniva il desiderio.
Siete voi qui, vecchi amici?
Non che resti altro oltre l’ombra,
eppure è stato il nostro un rapporto,
voi un riferimento, la compagnia
degli anni e l’abbandono nella trasformazione.
Le strisce di cielo su cui si stagliava
la sagoma dei corpi giovani, il piede
sul monticello di terra o nella buca
scavata coi bastoni. Chissà, il castagno
o la scorza di pino marittimo
non dicono se non l’antico respiro,
la gioia ariosa delle ore pellegrine.
S’illumina di luce meridiana
la sagoma di questo corpo di allora,
come allora senza sentiero. Nella radura
contavamo palline di sterco nel riposo
da un cammino che già conosceva,
fingendo, il suo comico, poco eroico
ritorno. Così umilmente ardeva
nella pioggia lieve il respiro
nel passo di ragazzini che riscendevano
dalla collina a una periferia
mediterranea di città già invasa
di antenne e fili
e panni stesi e voci tra le mamme
dai balconi e padri al lavoro,
dispersi come i figli nell’incertezza
fraintesa dei ruoli. Vivevamo
fra le rovine di qualcosa d’ignoto,
avi e sulla cima il fortino spagnolo
da cui guardare per un attimo
la distesa del mare, delle nostre estati
arroventate sui sabbioni.
Chi ad arrostirsi per scelta, noi
nei giochi svelti, nelle partite
su campi riarsi al margine delle rive,
pronti allo slancio nel refrigerio dopo
le fatiche. Ora, questo scherzo
dal passato rivive solo come spasmo
di dispersione, in chi, nel dissesto
di schermi e dita, reclama la parola
e il racconto per confermare il nesso,
ma il nodo è ormai disciolto.
Le maglie sfilacciate per una sicurezza
che sento, da altri ragazzi
distante, rastremata in un pugno
d’immagini che vibrano in un nuovo
contatto. Ecco, le ombre di ore
passate si riallacciano al quadro
di un futuro in ascesa,
pluridimensionale, inaudito,
o più semplicemente, nascente.

(Gianluca D’Andrea, Inedito)

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