Yari Bernasconi, Nuovi giorni di polvere (Casagrande, Bellinzona 2015)
Un filone della poesia contemporanea in lingua italiana vede nel ritorno alla storia, personale e collettiva, la possibilità di ricostruire un contatto con l’epoca, col tempo incerto in cui ci troviamo a vivere. Se proprio una tendenza applicabile alle fasi di passaggio deve esserci, questo nuovo “storicismo” è contraddistinto dall’attenzione “archeologica” al passato, ai residui e ai reperti linguistici che precedono l’oggi. Questa modalità di scavo può tradursi in “pietas” e tenta di focalizzarsi sul rischio di distruzione dei segni per riattivare il movimento opposto di cura e salvaguardia degli stessi. Ciò che è avvenuto è causa diretta di ciò che avviene, in una progressione abbastanza lineare degli eventi e delle esperienze compiute in cui risulti più facile un orientamento nel presente. L’opera di Yari Bernasconi sembra installarsi su queste posizioni; sulla scia dell’autorità di Pusterla, soprattutto, e in parte di Buffoni, Nuovi giorni di polvere sceglie la strada del racconto “memoriale”, compiuto da un osservatore comune.
Il linguaggio adoperato introduce alla nostalgia di una sconfitta, la storia è stata subita ma non per questo il soggetto rinuncia a presentare la narrazione di questa stessa perdita. Nel Prologo di Lettere da Dejevo, proprio in apertura, leggiamo:
Dici che abbandonando i caseggiati
avevano rotto tutto, i russi: raschiato
i pavimenti non crollati,
abbattute le finestre e le porte,
sradicate le tubature, le sale scoperchiate
con le stanze, i corridoi.
Nell’ombra, però, sotto i segni
di propaganda, un muretto si tiene
in piedi, quasi fiero.
Come in attesa di un’esecuzione.
(p. 11)
Dejevo, Estonia, paese costretto a ritornare a se stesso, dopo la disastrosa parentesi sovietica, ma il soggetto poetante, non potendo condividere i mutamenti di una storia chiaramente circoscritta, ne cerca, per quanto «indifferente,/ spalancando al vuoto un altro vuoto» (p. 12), i segnali nel presente. Vuoto della memoria, cioè assenza che rimpicciolisce lo stesso soggetto, schiacciandolo sul passato in cerca della ricostruzione, di una ricomparsa. Si compone un’etica (e un’epica?) del ricordo cui si ricorre in cerca di un appiglio che contrasti il senso di vuoto lasciato in eredità dalla “storia” del secolo trascorso.
Nuovi giorni di polvere mette in scena, ancora una volta, la marginalità dell’io lirico e l’inadeguatezza che deriva dalla nuova, e difficilmente leggibile, collocazione dello stesso nella realtà. L’attaccamento a questa tradizione, però, a volte semplifica per eccesso la narrazione, limitandola al resoconto periferico dei fatti, in bilico tra senso di colpa e volontà di emancipazione:
Ho scelto io di sedermi in silenzio
ad aspettare? Tu ti muovi fra i blocchi
ma ti piace la crepa che sgretola il muro
portante, pronto a trascinare nella terra
non il primo e non l’ultimo boato.
E ti consola il villaggio di strazi evidenti:
così facile la speranza, chiara la condanna.
Non ho scelto io questa libertà
senza censure, incrostata all’assenza
di sangue.
(p. 16)
Bernasconi è svizzero e la Svizzera, almeno nell’immaginario collettivo, identifica un isolamento privilegiato ottenuto con duro lavoro, certo, ma anche per mezzo di dubbie scelte esclusive. Non è mia intenzione scadere in generalizzazioni “nazionalistiche”, è pur vero, però, che dentro la neutralizzazione degli eventi può nascondersi una voragine di colpa e proprio nella modalità del distanziamento dello sguardo che diventa habitus, cambiando la prospettiva del soggetto. Così l’allontanamento imposto dalla storia, una specie di oltre-confine (non saprei come altro definirlo), sembra condurre nel cuore dell’agone, ed è cruccio per Bernasconi, che è l’attraversamento. Tra fuoriuscita e ritorno pacificante dentro il margine raccolto, “comunitario” – non so perché penso alle passeggiate immaginifiche di Walser, o all’estremo senso di giustizia di Dürrenmatt, così “oltranzistico” da condurre la scrittura nei territori della simbolizzazione grottesca, alla “mostrificazione” del reale -, Nuovi giorni di polvere manifesta insofferenza che si mescola a un nostalgico rimpianto: «Non ricordo il dolore. Non posso piangere/ di quello che so: anche i miei nonni,/ reduci a modo loro, sono troppo lontani» (p. 14).
Questa riflessione preliminare offre lo spunto per focalizzare la cifra stilistica più evidente del libro: il tono. La necessità del racconto e l’identità marginale conducono al livellamento del registro, alla purificazione dei contenuti, senza sperimentazioni o plasticità, in direzione di un accordo col reale. In una parola al classicismo, cioè la scelta formale che per ricreare equilibrio o aderenza al contesto ne idealizza il significato. Provo a spiegarmi: la perdita, la sconfitta appartenenti al passato, conducono certo al resoconto, ma in funzione della ripresa di un cammino che si dà per bloccato e che si vorrebbe riattivato a discapito del senso di colpa individuale e collettivo. In pratica si corre sul filo della forzatura del senso, proprio quando la “preghiera” del soggetto diventa richiesta di perdono ai residui del mondo scomparso – alla polvere, appunto, di fantiana memoria:
Un ritratto
Vedi l’asfalto bagnato, da lì: le venature
percorse dall’acqua e rotte solo dalla fanghiglia,
più lenta. I rami delle piante di città.
Anche oggi, da fuori, i rintocchi si ripetono,
prolungano il suono della notte.
La giustizia è giustizia, pensi: malgrado tutto,
era giustizia anche per noi e tanti sono passati
a miglior vita; sacrificarsi era l’unica strada,
stringere i denti con onore.
Le grida rauche dei ragazzi si spengono lontano,
da qualche parte, mentre cadi nell’ombra
della tua poltrona: la pipa, la tosse, la televisione.
(p. 31)
Il verso lungo, la forma compatta, le inserzioni prosastiche tradiscono questa tendenza a uscire dal «guscio di voci» (p. 32) in cui spesso il soggetto è rinchiuso. L’atteggiamento (borghese?) di questa ricerca accomodante provoca strozzature proprio in quel racconto che si vuole svolto in una nuova trama. Per fortuna, ed è merito di Bernasconi, la ricerca riesce, a volte, ad aprire brecce sull’innominabile della vera circuitazione etica, quella che si scontra con le ombre. Sciolto il nodo della cravatta eccoci immersi nell’agone, senza rimpianti: «Il lago s’insacca tra alcuni rilievi. Sono morti/ i vecchi platani, li hanno strappati anni fa./ Ora che c’è il sole si cercano altri spazi,/ ombre nuove» (p. 40).
Poche volte si squarcia, come nell’esempio citato, la sicurezza di un soggetto che, per quanto diminuito, è sempre presente nel suo viaggio di andata e ritorno da una dimora “solida”, conforme. Dall’Irlanda, all’Estonia, all’Indonesia, si osserva il movimento eterno di fatti interscambiabili causa un’avvertibile distanza, su cui si riflette nei ritorni dentro argini noti, senza possibilità di smarrimento, terribile eppure vivificante. Accade, per esempio, che i bambini della Landstrasse (programma di rieducazione per i figli dei girovaghi realizzato in Svizzera tra il 1926 e il 1972, come ci avverte la nota dell’autore) siano in grado, per non perdere l’orientamento, di adattarsi alla dinamica “correttiva” dettata dalle istituzioni, il che ne giustifica l’intervento:
Siamo felici nella nostra carovana, tra i volti
che conosciamo. Ma siamo troppo pochi
e nessuno ci crede: i nostri occhi
parlano lingue straniere, non sanno
giustificare il viaggio e l’orizzonte.
O non vogliono farlo, per evitare
di smarrirsi.
(p. 44)
La dinamica appena esposta appartiene all’autore, per quanto non necessariamente in maniera consapevole, perché se il male entra di rado nei testi del libro (e sempre di sbieco) sussiste un’incomprensione di fondo dello stesso (collegabile al senso di colpa di cui all’inizio). Questa difficoltà di accesso, per quanto in alcuni frangenti sia esibito il contrario – «Siamo insieme e inseguiamo la notte./ Goffi e testardi ma sempre selvatici» (p. 75) – limita, chiaramente, la volontà di fuoriuscita: «Altre volte ci sono mali incomprensibili/ e incidenti silenziosi, che cancellano/ le densità più fitte. Saperlo senza mai/ veramente saperlo è già abbastanza/ e non meno insopportabile» (p. 77).
A rivelarsi inconsistente è la carica eversiva del linguaggio, forse non cercata da Bernasconi nel rispetto del modello di riferimento “classicista”, ma non per questo non necessaria in un’epoca, la nostra, cui non sembrano adattarsi vecchi paradigmi di conoscenza e nella quale i linguaggi virano verso la commistione e l’ibridazione. Se il tentativo di recupero può essere importante, perché permette la sopravvivenza di una specifica tradizione linguistica – almeno nei poeti citati all’inizio della nostra riflessione (Pusterla e Buffoni), dal punto di vista generazionale ineluttabilmente radicati nel Novecento – non sembra più plausibile incontrarlo in autori che hanno attraversato il discrimine del secolo e avrebbero il dovere di sperimentare un nuovo cammino. Tra sponde lacustri e oceano aperto passa la sofferta consapevolezza di non possedere il linguaggio ma di adoperare strumenti che creano scatti e rientranze, un altro paesaggio e non l’accettazione del già acquisito.
Gianluca D’Andrea
(Ottobre 2015)

Man Ray, Elévage de Poussière (Allevamento di polvere) – 1920
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