di Daniele Greco
Richard Ford, Il giorno dell’indipendenza, Feltrinelli, 1996
Gianluca D'Andrea – Nothing that is not there and the nothing that is (W. Stevens)
Nothing that is not there and the nothing that is (W. Stevens)
di Daniele Greco
Richard Ford, Il giorno dell’indipendenza, Feltrinelli, 1996
di Andrea Ponso
CANTO IX
“Significare” senza i segni del linguaggio di parola o, meglio, sottolineando la stessa importanza di tutti gli altri linguaggi, agiti con la stessa potente e gloriosa intensità: ecco una della grandi scommesse del paradiso dantesco. Ed ecco: “ver’ me si fece, e ‘l suo voler piacermi / significava nel chiarir di fori”, ci dice Dante. E Dante lo “dice” e lo “significa”, è costretto, amorosamente, a farlo; eppure partecipa di questa pienezza in cui ogni forma di comunicazione, da quella verbale alla gestuale, da quella della luce e della musica fino alla lettura quasi telepatica dei pensieri, ci è data e mostrata – anzi, ci è data per parteciparvi, per entrarci dentro proprio attraverso un “significare” nuovo e antichissimo, quello della parola poetica. Tanto che, forse, per essere davvero nell’evento paradisiaco che Dante ci mostra, dovremmo immaginare la sua lingua come straniera e incomprensibile, così da non soffermarci troppo sui concetti e sull’immaginazione, per poter godere del suo movimento, della sua gestualità, dei grumi e degli strapiombi di luce imprendibile che, però, dal nostro orecchio e dalla nostra vista, si espandono in tutto il corpo com-muovendolo, facendolo vibrare e tremare, respirare nelle pause metriche e scivolare tra le rime e le assonanze. Dovremmo disimparare la nostra maestria linguistica, le nostre regole logico-grammaticali, proprio nel momento in cui le stiamo sperimentando nel segno e nella sua successione. Abbandonarci a questo continuum dove il corpo è il ponte principale verso il paradiso, sarebbe già essere in paradiso.
E c’è una storicità potente, che non va per niente persa, in questa modalità di lettura totale e quasi fisiologica che il paradiso ci chiede. Certo, conosciamo l’attualità delle vicende che Dante racconta, come in questo caso quella di Cunizza; ma forse riusciremmo a percepirne la midolla anche solo assecondandone il fluire dei significanti, come se, appunto, non conoscessimo “la lingua”. Prendiamo, ad esempio, due versi del discorso di Cunizza e ascoltiamone, oltre i significati, la storia e la sua narrazione: “ma lietamente a me medesma indulgo / la cagion di mia sorte, e non mi noia; / che parria forse forte al vostro vulgo”. Il primo verso è un capolavoro perché ci fa suonare e partecipare nel senso e nella storia anche senza il significato, prima del significato: “ma lietamente a me medesma …” è già di una dolcezza e di un’accettazione musicale senza precedenti, proprio nei significanti e nel scivolare arreso eppure consapevole del ritmo; “indulgo”, un poco più duro nel suono, è come un breve lampo del dolore passato, messo a fine verso quasi ancora ci fosse un’ombra di esitazione che poi invece scivola via nel verso successivo, dove la -g- dura si scioglie in dolce, “cagion”, e torna il ritmato planare della -m- che ci aveva immersi nel verso precedente, insieme alla -s-, “la cagion di mia sorte …”; fino a quel “… non mi noia” dove la variazione in -n- un poco più dura viene stemperata da quel semplice “mi” e dalla sua posizione: “non mi noia” è, a livello fonico e ritmico, una sorta di lieve capogiro, un ritorno dei significati e della storia, che quindi non viene cancellata mai e “che parria forse forte al vostro vulgo”.
Dentro a questo movimento ritmico e musicale, in cui la storia s’incarna oltre ogni idolatria dei significati solamente, dove tutto è anche gesto e cenno, fisiologia gloriosa e abbandono, basta lasciarsi suonare dal suo incedere per vedere il futuro, per pre-vedere – ma sarebbe più esatto dire per pre-sentire – ciò che sta per accadere, come farà Cunizza, e come faranno e hanno fatto molti altri personaggi. È la profezia del ritmo e del significante. È davvero la lingua e il corpo di Dio in cui ci muoviamo e siamo: e lo dice, in fondo, anche Cunizza, quando ci ricorda che “Sù sono specchi, voi dicete Troni, / onde refulge a noi Dio giudicante; sì che questi parlar ne paion buoni”. Il giudizio di Dio è musicale e ritmico, è un vibrare continuo in lui, e se siamo in lui, nel suo canto senza fine, nel suo e nostro continuo tremore, che è gioia e timore in un’unica risonanza, siamo intonati e “buoni”, nonostante il giudizio possa essere duro. “Dio vede tutto, e tuo veder s’inluia” dice Dante in questo canto, ma ormai sappiamo bene che non di sola vista si tratta e che tutto è sinestesia continua, tanto che l’ultima parola del verso, come accade spesso e si ripeterà pochi versi dopo (“s’io m’intuassi, come tu t’inmii”), è davvero un andare oltre il linguaggio, sfidandone proprio il “significare” per immergersi, con quel termine che, più che significato è slancio e gesto, in Lui.