Fabula – Frammenti per la notte (a cura di Manuela Cardiano). Jón Kalman Stefánsson, “I pesci non hanno gambe”, Iperborea 2015

di Manuela Cardiano

Jón Kalman Stefánsson, I pesci non hanno gambe, Iperborea 2015

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EVEREST

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di Francesco Torre

EVEREST

Regia di Baltasar Kormákur. Con Jason Clarke, Jake Gyllenhall, Josh Brolin, Emily Watson, Keira Knightley, Robin Wright.
Usa 2015, 121’.

Distribuzione: Universal Pictures.

everest

Nonostante siano passati ormai quasi 70 anni da quando André Bazin teorizzò il cosiddetto complesso della mummia[1] come origine psicoanalitica delle arti plastiche e del cinema, è ancora oggi immediato l’accostamento a quelle suggestioni filosofiche nel momento in cui in sala appaiono film, come “Everest” di Kormákur, che sfidano l’irrappresentabilità della morte al cinema. Non tanto per le note posizioni etiche del cattolico scrittore e critico francese – ovvero la condanna definitiva di «oscenità metafisica» per chiunque tentasse violare il mistero della morte reale – quanto per le valutazioni di ordine epistemologico contenute in quel saggio. Se è vero, infatti, come sostiene Bazin, che il cinema assolve al bisogno primordiale dell’uomo di difendersi dal tempo («fissando artificialmente le apparenze carnali dell’essere» al fine di «strapparlo al flusso della durata» e realizzare l’inconscio desiderio di «rimpiazzare il mondo esterno con il suo doppio»), l’atto sessuale e la morte – indipendentemente dalle abitudini culturali dello spettatore, e dunque in ogni luogo e in ogni tempo – non possono che essere identificati come due insostenibili atout, o meglio veri e propri tabù cinematografici in quanto già essi stessi naturale rappresentazione – non solo simbolica – della «vittoria del tempo» contro cui l’uomo nulla può fare per difendersi. Destinato così ad infrangersi sul muro delle apparenze estetiche risulterebbe così qualsiasi tentativo di mettere in scena la morte, che nell’impossibilità di rendere la verità e il valore dell’esperienza reale non potrebbe che adottare la strada della simulazione se non quella, forse sì anche eticamente discutibile, della spettacolarizzazione. Per quanto riguarda “Everest”, la sensazione è che si precipiti proprio – letteralmente – in quest’ultima direzione.
Tratto dal saggio del giornalista Jon Krakauer “Aria sottile”, il film rievoca la tragica spedizione alpinistica sull’Everest tra il 10 e l’11 maggio 1996 in cui in otto rimasero vittime della montagna, colti di sorpresa da una violenta bufera e morti per lo più di assideramento. Il racconto segue un nucleo di personaggi (Krakauer compreso, in quanto tra i reali sopravvissuti) di due diverse spedizioni, dall’inizio della scalata fino al fatale epilogo, documentando tutte le avversità del loro viaggio e montandole in parallelo con gli inserti dedicati alle mogli, ai figli e ai colleghi in attesa di informazioni, ambientati in comode case borghesi o in tende alla base della montagna.
Riprese aeree, totali mozzafiato, inquadrature impossibili: sin dall’apertura, “Everest” non rinuncia mai alle possibilità tutte estetiche di offrire agli spettatori delle splendide cartoline dall’Himalaya. Kormákur, regista islandese che già in “The Deep” (2012) aveva affrontato il tema della sfida tra l’uomo e la natura, derubrica la questione dell’adesione storica adottando una fotografia vintage e abbigliando i propri personaggi come i reali scalatori, immortalati in una foto di gruppo sui titoli di coda. La scelta di moltiplicare i punti di vista, di rendere il racconto visivamente corale, disinnesca però qualsiasi tentazione verso un’immersione soggettiva, e lascia spazio a virtuosistiche esibizioni tecniche e, sul finale, alla libera esibizione delle agonie di tutte le vittime. Scandito da ellissi temporali e reso serrato da un susseguirsi incessante di difficoltà e pericoli, il montaggio divide così il racconto in una serie lineare di sequenze interne che però non hanno un valore meramente informativo o da reportage. Uno sguardo terzo infatti sorprende sempre i protagonisti da dietro i ghiacciai, al di là di campi di bufali, all’altezza delle nuvole o dai neri abissi di un baratro, trasformando in spettacolo per le masse un’esperienza umana di autentico supplizio.
Al di là delle discutibili scelte estetiche, però, il film sembra evidenziare anche più gravi debolezze strutturali. Il corposo team di sceneggiatura (5 autori, ma d’altra parte si dovevano considerare le esigenze di ben 13 produttori), nel non prendere mai in considerazione l’idea di una narrazione in prima persona, vorrebbe rivendicare per ogni singolo personaggio il cuore del racconto. In mancanza di uno scavo nella vita interiore dei protagonisti (di loro sappiamo poco: uno ha una moglie incinta in Nuova Zelanda, un altro ha contatti con la Casa Bianca, un altro ancora è postino), le dinamiche interne risultano però tra di loro simili e del tutto sovrapponibili, e il racconto risulta conseguentemente ingolfato da ripetizioni nella costruzione dei dialoghi e nelle situazioni – anche visive – mostrate, oltre che impoverito da incomprensibili vuoti (di memoria? Di senso?): che fine fa per esempio il giornalista, il cui destino viene abbandonato a metà del film? Lo script, insomma, sembra soffrire dello stesso problema dell’Everest: il sovraffollamento. E tra tanti personaggi, quello meno a fuoco di tutti purtroppo è sicuramente il più importante: la montagna stessa.


NOTE

[1] André Bazin, Che cosa è il cinema?, Garzanti 1999.