Asclepiade di Samo (ante 310 a.C. – …)

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Isola di Samo, veduta dei resti delle terme di età romana (Elaborazione grafica di Gianluca D’Andrea)

Muore l’Idea e si cade nel basso fermentante della vita. Millenni di disincanto, più nulla. Nessun gioco, tutto gioco. Poco, prima della scomparsa. Semibuio.

Gianluca D’Andrea


Asclepiade (epigrammi scelti)

Traduzione di Alceste Angelini (Einaudi, Torino 1970)

asclepiade

 

II.

Rovescia neve e grandine, manda le tenebre,
abbrucia, scaglia fulmini, sopra la terra
nuvole spingi tutte di fuoco.
Quando mi uccidi potrò desistere.
Finché lasci ch’io viva
anche se più imperversi,
esulterò nell’orgia.
Un dio di te più forte mi trascina:
anche di te, che un giorno gli obbedivi
filtrando tra pareti di metallo,
cambiato, o Giove, in polvere d’oro.

*

VIII.

L’insaziata Filenio m’ha trafitto.
sebbene la ferita non appare
il tormento m’invade fino all’unghie.
Sono spacciato, Amori, perduto, morto:
con gli occhi chiusi ho pestato una vipera.
Ora il mio piede già tocca l’Ade.

*

IX.

Notte, sei tu, tu sola, testimone
di quanto mi fa soffrire
la figlia di Nicò,
Pitíade, coi suoi inganni.
Ci s’era dati convegno:
non da me son venuto.
Tocchi a lei un’altra volta
la medesima sorte,
e teco se ne crucci
davanti alle mie porte.

*

X.

Pioggia e notte. E per l’amore un altro male: il vino.
Soffiava un vento gelido. Ero solo.
Ma più poteva in me la bellezza di Mosco.
«Possa anche tu vagare nella notte
e non s’apra una porta a darti requie».
Questo gridai al ragazzo nella pioggia.
Ma fino a quando, Giove, questo inferno?
Calmati, Giove caro: anche tu conosci l’amore.

*

XI.

È dolce nell’arsura dell’estate
portarsi al labbro un poco di neve;
e quando l’inverno declina
ai marinai è dolce rivedere
la Corona, che annunzia primavera.
Ma la cosa più dolce, se un lenzuolo
copre due innamorati,
e i loro cuori esaltano Afrodite.

*

XIV.

Notte lunga e burrasca:
a mezza via le Pleiadi sommerge.
E io grondante di pioggia
rasento le sue porte,
trafitto dal desiderio
di quella ingannevole.
Non amore ma un fuoco disperante
Cipride m’ha scagliato!

*

XXIII.

Otto braccia più in là, mare, allontana
gl’ispidi flutti. E schiuma a più non posso e grida.
Niente di buono per te se porti via questa tomba:
troverai solo il cenere e l’ossa di Èumare.

*

XXIV.

Tu che t’accosti a questa tomba vuota,
viandante, se giungi fino a Chio,
dì a mio padre Melesàgora
che me e la nave e il carico
disperse l’Euro maligno,
e che d’Evippo resta solo il nome.

*

XXVI.

Non ho ancora ventidue anni
e già sono affranto di vivere.
Cos’è questo male?
O Amori, perché mi bruciate?
Se qualcosa m’accade,
voi che farete, Amori?
Rimarrete certo impassibili
al vostro gioco dei dadi.

*

XXXV.

Quanto m’avanza della vita ancora,
quale che sia la sua durata, o Amori,
concedete che scorra nella quiete.
O fulmini vibrate, non più frecce
contro di me, fino a ridurmi cenere
e spenta brace. Sì, colpite, Amori!
Inaridito nei tormenti invoco
da voi almeno quest’amara grazia.