
Andrej Rublëv, Trinità (1422?), Galleria Tret’jakov (Mosca)
di Andrea Ponso
IN GENERE RITUS – Padri e Figli letterari senza generazione. Un patto dia-bolico
Lo gnostico ha per gli impuri l’effetto del sale.
Evagrio Pontico, Gnostikos, SC 356, Paris 1989.
La tradizione patristica e in particolare monastica, in special modo quella orientale, da secoli incarna un carisma specifico, che non riguarda l’istituzione, seppure è al suo interno, e che va sotto al nome di paternità spirituale. Da tempo si è tornati a discutere, spesso con ammicchi e facili conclusioni, magari pseudo-psicoanalitiche, sul tema della scomparsa del padre nel nostro tempo, anche in letteratura.
Per molti si inneggiava anni di liberazione dal padre, mentre oggi sentiamo forse questa mancanza come qualcosa di essenziale. Ma io credo che non sia per niente vero che mancano i “padri”: al contrario, ce ne sono troppi e troppo buoni e disponibili; padri spesso in cerca di stampelle alla loro posizione di padri, e queste stampelle, questi appoggi alla loro fama, sono proprio i “figli”. Essi promuovono infatti acriticamente qualunque slancio espressivo, con grande magnanimità – una magnanimità distruttiva e a volte pure insensibile – perché spingendo avanti giovani sprovveduti e appena alfabetizzati abdicano precisamente alla loro funzione di padri e di maestri. Non esercitano alcun tipo di autorità che non sia quella della promozione “commerciale”, mentre lasciano sotto silenzio le imperfezioni, le zeppe, l’inconsistenza dell’opera. Questo eccesso di “interesse”, questo dire continuamente sì, avallando ogni cosa indistintamente, porta verso una temperie culturale limacciosa, dolciastra, in cui ci si impantana felicemente come nella più bella delle paludi.
Del resto, questo ai “figli” va più che bene: si evita il confronto vero, si marcisce nel proprio dolce liofilizzato, ottenendo quel poco di interesse, quel minimo di diritto da schiavi che tanto ci rende felici e realizzati. Questi “figli”, insomma, non vogliono davvero “padri”, non vogliono padri veri e autori con autorità. Non ne hanno l’umiltà, come non è umiltà quella eccessiva dei “padri”, che si comportano come detto sopra. Eppure si moltiplicano le relazioni, i contatti, le iniziative in cui il poeta o lo scrittore di nome si affianca al giovane per promuoverne i lavori. Ma non sembrano relazioni, sembrano piuttosto ospitate da talent show e nient’altro.
La dinamica della paternità spirituale, secondo la tradizione patristica, è sicuramente di altro genere e, per questo, potrebbe suggerire e mostrare qualcosa di interessante anche a noi oggi. Essa si muove all’interno di una pratica che è sicuramente trinitaria ma che, dal punto di vista antropologico, può riservare tesori anche per i non credenti. Per prima cosa potremmo dire che il suo centro è non averne alcuno o, meglio, che il suo centro, se così vogliamo chiamarlo, è la relazione: in termini più strettamente teologici ogni persona della trinità è, per così dire, fuori da se stessa, in un’azione continua che è appunto lo Spirito stesso; il Padre non si conosce che tramite il Figlio, e il Figlio è eternamente generato dal Padre, mentre lo Spirito è la relazione continua che decentra ogni persona trinitaria da se stessa in una forza che è l’amore o, meglio, agápē. Già a questo livello opera quello svuotamento continuo del soggetto in quanto ab-soluto che in teologia è detto kenosi. Quest’ultimo termine, agápē, risulta più conveniente per non ridurre l’amore all’inflazione che ai nostri giorni è davvero insostenibile e che ne sfigura i tratti.
Perché questo amore, questa relazione, ha una sua ritmica, un suo battito che assume anche caratteristiche tragiche e paradossali, che raggiungono anche il grido dell’abbandono di Cristo sulla croce, il ritrarsi del Padre e il silenzio della non risposta. E credo che proprio in questa sua amorosa tragicità, in questa pratica della distanza e dell’attesa tra domanda e risposta ci sia qualcosa da imparare anche per noi in campo estetico.
Nelle parole di uno dei più grandi padri spirituali di tutti i tempi, Evagrio Pontico, troviamo infatti termini che al nostro orecchio possono risultare duri e contraddittori: Evagrio infatti sostiene che la virtù maggiore di un padre spirituale è l’agápē, “figlia dell’impassibilità”, unita alla praótes che potremmo tradurre con “mitezza”. Già in questi pochi termini possiamo comprendere che la differenza e la distanza sono necessarie tra padre e figlio spirituale, che sono necessarie a quell’agápē capace di donare al figlio o al discepolo uno spazio di libertà difficile e a volte anche tragico, ma pienamente funzionale al suo sviluppo e al suo affrancamento dalla dipendenza: è questo il solo tipo di relazione possibile, vivo solamente nel preservare la distanza, e la distanza come modalità vera e non edulcorata della relazione. In questo senso, allora, la stessa “mitezza” non è mai accondiscendenza acritica: essa riguarda piuttosto quell’amore capace di lasciar essere e generare l’altro, in un ritiro “kenotico” del padre che “abbandona” come dono di una libertà di movimento e di indagine, di pratica e teoria. Nelle parole di Gabriel Bunge, uno dei maggiori studiosi di Evagrio, la mitezza
«è quella forma di amore che spinge colui che ne è in possesso a non esercitare un dominio sull’altro, ma anzi ad offrire all’altro – fino al rinnegamento di sé – quello spazio vitale di cui ha bisogno per essere pienamente se stesso» (G. Bunge, La paternità spirituale. Il vero “gnostico” nel pensiero di Evagrio, Qiqajon, Magnano 2009, p. 38).
Si tratta di una situazione molto diversa dalla indifferenziata accondiscendenza di tanti padri letterari viventi del nostro tempo, da quella finta libertà della promozione incondizionata e buonista che non è altro che legame di dipendenza e dominio non visibile, che si nasconde proprio nella sua apparenza contraria. Questa facile via potrebbe avere molte motivazioni; per Evagrio una delle principali fonti di una cattiva pratica del carisma della paternità spirituale è la dimenticanza dei padri di essere anch’essi figli; egli infatti chiama i veri padri spirituali “figli dei figli” e interrompere questa circolazione continua di dono e dipendenza che libera è oltraggiare sia chi ci ha preceduto o è più grande, sia chi ci sta di fronte come figlio:
«Un monaco che tralascia di custodire le parole di suo padre
bestemmierà i capelli grigi di colui che l’ha generato
e oltraggerà la vita dei suoi figli.
Ma il Signore lo disprezzerà».
Sono convinto che quella forma accondiscendente e quasi da assistenza sociale che molti dei nostri padri letterari viventi attuano nei confronti di chi è ancora sulla via della crescita, sia in fondo “bestemmia” e “oltraggio”; sia una scarsa valutazione e, in fondo, forse anche una fondata percezione della pochezza dell’opera dei figli. Ma, anche se così fosse, perché non dirla questa pochezza e inconsistenza? Forse perché solo così i figli potrebbero crescere ed essere liberi. Ma i figli sono anche, nel nostro caso, quasi il solo “pubblico” dei padri, e questo pubblico va preservato come spettatore, mai come possibile autore e figlio vero. Quest’alleanza, questo patto silenzioso tra padri e figli, è dia-bolica perché interrompe la vera relazione, riducendola alla sua rappresentazione, senza generare nulla.
In questa alleanza paradossale, in questa circolarità malata che si auto-assiste da entrambe le parti, in questa stanchezza mascherata da entusiasmo e dal darsi da fare per la poesia e per il suo pubblico e i suoi autori, si scorge una vera e propria mancanza di “direzione”, sia nel senso di un progetto, sia nel significato proprio di “direzione” spirituale. Concludo quindi questi spunti con le stesse parole di Evagrio:
«È con una direzione (kybérnesis) che si fa la guerra: quelli che “fanno naufragio nella fede” non combattono “con una direzione” gli spiriti che si oppongono alla teologia. Ma la stessa cosa si può dire per ogni altra virtù. C’è infatti anche un naufragio che concerne la temperanza, la carità e la libertà dall’avarizia. E similmente avvengono naufragi a proposito di ognuno dei dogmi della chiesa cattolica e apostolica. Ma se si devono combattere gli avversari “con una direzione”, allora la nostra vita sulla terra assomiglia a una battaglia navale» (Evagrio Pontico, Scholies aux Proverbes, SC 340, Paris 1987, 24, 6 p. 266).