HUMANDROID

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Una scena dal film HUMANDROID

di Francesco Torre

HUMANDROID

Regia di Neill Blomkamp. Con Dev Patel (Deon Wilson), Ninja (Ninja), Yolandi Visser (Yolandi), Hugh Jackman (Vincent Moore), Sigourney Weaver (Michelle Bradley).
Usa 2015, 120’.

Distribuzione: Warner Bros Italia.

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Johannesburg, in un futuro non molto lontano. L’introduzione dei robot nei reparti armati della polizia ha aumentato i livelli di sicurezza e quasi annientato le gang armate della metropoli sudafricana. Il giovane ingegnere che ha brevettato il prototipo del robot-poliziotto, Deon Wilson, sogna però di poter trapiantare nella memoria dei droni anche la coscienza, sebbene ciò non rientri perfettamente nei progetti commerciali dell’azienda per cui lavora. Cogliendo così l’occasione di un incontro con un gruppo di teppisti, testa clandestinamente Chappie, un robot capace di elaborare concetti ed emozioni e reagire ad essi in maniera autonoma. Quando però Chappie capisce di non essere altro che una cavia da laboratorio, non gli rimane che affidarsi ciecamente alla gang che lo tiene in custodia, diventando un’arma micidiale per progetti criminali e mettendo a ferro e fuoco la città. La situazione di instabilità avvantaggia le ambizioni di un altro ingegnere, Vincent Moore, che così può finalmente mettere in campo il suo enorme drone distruttore.
Regola numero 1: nell’eccentrico mondo di Neill Blomkamp (regista sudafricano capace di mescolare temi sociali e atmosfere sci-fi nei precedenti District 9 e Elysium), mai porsi troppe domande. Infrangere questo comandamento potrebbe risultare letale. Ci si potrebbe chiedere, per esempio, perché uno dei più grandi ingegneri informatici di tutti i tempi, l’inventore del robot-poliziotto, presumibilmente destinato al Nobel, usi per lavoro un monitor a tubo catodico che ormai non hanno nemmeno nelle più disastrate scuole di provincia. Oppure perché il primo robot cosciente della storia dell’umanità venga battezzato con il nome di un cibo per cani. Ci si potrebbe trovare disorientati, inoltre, di fronte ad un team di cattivi o presunti tali che sembra la parodia del Trio Dronio (e invece nella realtà è solo la band hip hop Die Antwoord) e guarda in tv su un apparecchio dei tempi dei nostri nonni un cartone animato dei tempi dei nostri nonni (He-Man). Infine, sarebbe lecito preoccuparsi per i neri sudafricani, dato che rappresentano quasi il 90% dell’attuale popolazione ma nel film quasi non se ne vede nemmeno uno (genocidio?), come pure per l’evoluzione dei costumi: se la moda di domani prevede capigliature come quelle di Hugh Jackman, meglio scendere dal treno del progresso.
Regola numero 2: nell’eccentrico mondo di Humandroid mai provare ad approfondire un tema. Il film ne introduce molti, e tutti li disperde: il rapporto Creatore/Creatura, la reincarnazione digitale, l’educazione criminale, il diritto alla libertà personale anche nel mancato rispetto delle convenzioni sociali e giuridiche, l’intelligenza artificiale, l’evoluzione della robotica, le trasformazioni sociali, culturali e anche urbanistiche che questi progressi potranno generare. Da Metropolis in poi, il cinema si è alimentato di questi interrogativi, creando scenari immaginifici, liberando infinite energie creative, ponendo lo spettatore di fronte ad inquietanti quanto affascinanti dilemmi. E dato che ormai tutto è stato assorbito dalla generazione dei nativi digitali – sembra pensare il regista – meglio darlo per scontato e focalizzarsi su altro. Su cosa? Sull’estremizzazione di un’estetica del patchwork, che mette sullo stesso piano finta documentazione, scene di azione ad alto tasso di adrenalina, linguaggio televisivo, personaggi da fumetto splatter e melodramma postmoderno. Il tutto immerso dal primo all’ultimo minuto nelle enfatiche musiche di Hans Zimmer, che come un collante provano a tenere insieme (senza riuscirci) un mosaico narrativo e visivo davvero farraginoso. Rallenty, soggettive, repentini cambi di prospettiva. Materiale utile, forse, per ricavare dal film un ottimo merchandising, a partire dalla produzione di un videogioco, o dalle magliette con su scritto Chappie che la bionda Yolandi mostra inspiegabilmente nella sequenza della battaglia finale (ce l’aveva già nel proprio armadio, magari come gadget di un grande ordinativo di croccantini per Fuffy?), ma che in mancanza di una prospettiva autoriale, di una narrazione coerente, di un tono funzionale al racconto, sembra del tutto pretestuoso. E così, il fascino principale del film finisce per risiedere esclusivamente nel movimento delle orecchie del robot, che pungono e si struggono come quelle di un coniglio in titanio.

La citazione: «Creatore, una bella soluzione per te. Esporteremo la tua coscienza.».