
Una scena dal film INTO THE WOODS (Peter Mountain/Courtesy of Disney Enterprises)
di Francesco Torre
INTO THE WOODS
Regia di Rob Marshall. Con Meryl Streep (La strega), Emily Blunt (La moglie del fornaio), James Corden (Il fornaio), Anna Kendrick (Cenerentola), Johnny Depp (Il lupo).
Usa 2014, 125’.
Distribuzione: Walt Disney.
Adattato per il cinema dal collaudato Rob Marshall (Chicago, Nine) sotto l’attenta sorveglianza della Disney, il musical anni ’80 di Stephen Sondheim e James Lapine dal titolo Into the woods non censura le atmosfere dark e le ambivalenze morali dello script originale, ma abbandona ogni puntuale e doloroso riferimento alla cultura omosessuale per abbracciare un più universale, omologante, borghese e perbenista percorso di formazione umana.
Cenerentola incontra Cappuccetto Rosso, le avventure di Rapunzel si concatenano con quelle di Jack (e il suo fagiolo magico), e tutti sono inglobati in uno schema narrativo che riconosce alleati e nemici, e alterna i ritmi da commedia (ora romantica, ora degli equivoci) della prima parte con gli apocalittici scenari della seconda. Esattamente ciò che succede nelle grandi saghe Marvel (vedi Avengers, o meglio, per il taglio ironico e il gusto retrò, il più recente I guardiani della galassia), e d’altra parte la potenza iconica dei personaggi fiabeschi dell’universo Disney non può certo considerarsi inferiore a quella del colosso americano dei fumetti.
Motore invisibile della storia è la fertilità. Viene negata a un timido fornaio e alla sua cinguettante mogliettina (nonostante la revisione disneyana, la sceneggiatura non riesce a celare una feroce misoginia) da una malefica strega la cui identità ingloba sia Faust che Mefistofele. La narrazione segue le loro rocambolesche ma prevedibilissime avventure alimentandosi col fuoco sacro dei Fratelli Grimm, e sebbene il film non riesca a (o non voglia, o non possa) assecondare nessuna lettura psicologicamente o sessualmente più approfondita delle fiabe proposte, pure la riedizione delle stesse rimane di gran lunga l’elemento di maggiore impatto visivo. Mentre infatti ognuno dei personaggi presi in prestito dalla grande tradizione tedesca (originariamente non concepiti solo per un target di bambini, e solo successivamente edulcorati ad uso e consumo dell’industria cinematografica americana e del marketing annesso) sviluppa nella sua evoluzione concetti che disvelano e si confrontano apertamente con i grandi interrogativi dell’esistenza (dalle leggi del desiderio alle insidie della psiche allo scontro Natura-Cultura), la trama innestata di sana pianta prima nel musical di Broadway e poi nel film (quella del fornaio e della strega, per intenderci) vive esclusivamente nella superficie di dinamiche banali e ovvie, di matrice borghese, che se nella versione teatrale originale potevano contare su una metaforica lettura in chiave di controcultura (le lusinghe della società capitalista, i diritti del popolo gay, e sullo sfondo l’orrenda piaga dell’AIDS), qui non conquistano mai legittimamente il primo piano, finendo di contorno a tutto il resto.
Il compulsivo richiamo all’ironia, peraltro non sempre ben distribuita (anche qui, la parodia machista dei principi azzurri non ha senso se depurata del suo originale punto di vista), gli eccessi ora sanguinolenti ora melò e dark delle varie linee narrative, i creativi effetti digitali a cui è interamente affidata la costruzione dell’atmosfera (la strega che si materializza e svanisce in turbini di foglie, i bagliori di illuminazione celeste del bosco), non riescono così ad evitare l’emergere di qualche sbadiglio e perfino un’ombra di irritazione nei confronti di alcune scelte oggettivamente inspiegabili, come il casuale innesto di una voce narrativa esterna. Un commento del tutto superfluo, anche perché le canzoni di Sondheim, con i loro giochi di parole ingegnosi, il lessico denso e audace, le rime interne che conferiscono quasi un andamento rap, sono del tutto funzionali alla narrazione (ed è coraggiosa e meritoria la scelta di distribuzione di non tradurle, pur puntando anche e soprattutto su un target di giovanissimi, non del tutto compatibile dunque con la lettura dei sottotitoli).
Quando, infatti, piuttosto che utilizzare la consueta e consunta formula “e tutti vissero felici e contenti”, più o meno a metà del film una delle canzoni afferma «e tutto passò, tutto ciò che sembrava sbagliato adesso era giusto», è facile intuire l’improvvisa virata della trama, il balzo avanti dei personaggi dal territorio delle fiabe al mondo reale spaventoso, l’inizio della fine. Il bosco è devastato da una catastrofe, identificata con una gigantessa arrabbiata (ancora una donna), che calpesta ogni cosa seminando morte e distruzione. Le figure fiabesche acquistano una terza dimensione, divenendo complessi, auto-consapevoli esseri umani in transizione. La coppia di protagonisti, dopo aver raggiunto l’agognato obiettivo di avere un bambino, scopre l’adulterio (della donna), il dolore di un lutto (della donna) e infine i dissidi interiori (dell’uomo) mai risolti con le figure genitoriali.
L’ambivalenza morale qui raggiunge il suo apice. Persi e senza alcuna prospettiva di raggiungere nuovamente le proprie case, i sopravvissuti si attaccano l’un l’altro, scoprendo il rimorso, l’invidia, la gelosia, la curiosità malevola, l’ignavia, e riconoscendo l’unico valore condiviso in un costruito sentimento di mutua assistenza, basato su primitivi istinti di interesse e bisogno personali, per abbattere il nemico comune. Quando la violenza viene perpetrata, e l’ultima immagine ci riconsegna la costruzione di un rinnovato disegno familiare (il fornaio, Cenerentola, Cappuccetto Rosso e Jack), è allora che la fiaba si trasforma pienamente in un incubo reazionario, e il film riesce nell’arduo compito di far apparire la fabbrica delle illusioni Disney un esempio di virtù progressiste.
La citazione: «Voi non siete giusti o sbagliati. Siete solo carini».