SELMA – LA STRADA PER LA LIBERTA’

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Una scena dal film SELMA – LA STRADA PER LA LIBERTÀ

di Francesco Torre

SELMA – LA STRADA PER LA LIBERTA’

Regia di Ava duVernay. Con David Oyelowo (Martin Luther King Jr.), Tom Wilkinson (Lindon Johnson), Tim Roth (George Wallace), Oprah Winfrey (Annie Lee Cooper).
Usa/GB 2014, 127’.

Distribuzione: Notorius.

La prima delle tre marce da Selma a Montgomery per supportare la causa del diritto di voto degli afro-americani si svolse il 7 marzo 1965, e passò alla storia come “Bloody Sunday”. La sua ricostruzione sullo schermo è posta giusto al cuore della narrazione del film che Ava duVernay ha dedicato a Martin Luther King Jr., al revisionismo storico e al cinema politico. Una sequenza rabbiosa con un montaggio serratissimo, tagli di inquadratura audaci, lo sfocato usato come elemento pittorico e movimenti di macchina ora ampi e liquidi ora veloci e sincopati. Uno scenario di guerriglia armata che per tecnica e forza evocativa può ricordare le concitate sequenze di lotta civile dei film di Ejzenŝtein e dei formalisti russi, ma che più opportunamente rientra nei canoni estetici e linguistici del war movie, genere cinematografico cui peraltro il film rimanda sin dalle prime battute, sia nella struttura (per esempio tramite l’esibizione immediata di un’atrocità con la funzione di casus belli, la bomba di Birmingham con cui il Ku Klux Klan uccise quattro bambine nere, che però in realtà successe ben 2 anni prima dei fatti di Selma), sia nel lessico (trincea, esercito, soldati sono parole molte frequentate dalla sceneggiatura).
Eppure evidentemente Selma – La strada per la libertà non è un film di guerra, e nemmeno un western sebbene proprio la figura di King sembri forgiata nello stampo di Shane e dei tanti cavalieri della valle solitaria che hanno alimentato il mito della frontiera. Con i generi cinematografici classici, così come con il bio-pic, la regia di Ava duVernay ha anzi un approccio destrutturante e composito, che come nel Lincoln di Spielberg sembra mirare ad una narrazione complessa e stratificata atta a sublimare il senso della Storia tramite la mitizzazione di persone, luoghi e soprattutto immagini-simbolo (Deleuze avrebbe detto op-segni). Quanto ciò abbia a che vedere con la storia dell’evoluzione del linguaggio cinematografico, con la crisi dell’immagine-movimento, del nesso organico tra percezione e azione che ha caratterizzato tutta l’epoca della cosiddetta classicità, sembra piuttosto evidente. Meno chiaro è però il perché esigenze di tipo estetico debbano inficiare il rigore filologico e la verosimiglianza storica.
Al netto dei dialoghi pedagogici e dell’esuberanza degli artifici retorici di stampo visivo (piazzare un ritratto di George Washington in bella vista dietro ogni scena “a due” tra King e l’allora Presidente degli Stati Uniti Lindon Johnson è puro didascalismo), il film non sembra infatti capace di contemplare all’interno di uno schema narrativo coerente tutte le istanze socio-politiche del tempo. La morte di Kennedy e la guerra in Vietnam, per esempio, vengono appena accennate. Malcolm X è poco più che una meteora, e il suo assassinio – che pure avviene due settimane prima del Bloody Sunday di Selma – non sembra avere alcun peso nel processo di condizionamento mediatico dell’opinione pubblica sul tema dei diritti civili dei neri d’America. Gli stessi rapporti tra King e Johnson, qui raffigurati come una dialettica tra due diverse accezioni della politica comunque indirizzate verso lo storico obiettivo della rimozione della discriminazione razziale, sono stati al centro di polemiche e censure sul fronte interno in buona parte delle analisi critiche sul film.
Chi legge Selma secondo la lente del puro revisionismo di stampo manicheo, soffermandosi unicamente sulla rappresentazione storica degli eventi, sembra però non riflettere sull’obiettivo forse più importante che il film di Ava duVernay evidentemente si prefigge, quello cioè di dichiarare il diritto del popolo nero occidentale ad avere una propria letteratura cinematografica, un repertorio epico da giustapporre se non contrapporre – quasi alla stregua di una controcultura – alla Storia ufficiale. In questo Selma non è certo un prototipo: The Help, The Butler e 12 anni schiavo, per esempio, costituiscono dei precedenti altisonanti, nel cui solco il film di Ava duVernay trova una posizione dominante. Raffigurando i marcianti di Selma come un “quarto stato”, folla indistinta di uomini e donne che avanzano leggeri, eterei sulle strade dell’Alabama nel nome di un progetto comune, e recuperando poi nel reale repertorio di immagini del tempo i volti, gli abiti e anche le voci dei protagonisti di quella vicenda storica, c’è davvero la sensazione che – con tutti i distinguo che sono necessari al paragone – il racconto cinematografico delle 10 miglia della marcia di Selma potranno rappresentare per i neri d’America quel che i 100 passi di Peppino Impastato rappresentano nell’immaginario di ogni siciliano della generazione di mezzo. Tanto più che il film si nutre sì di un eroe giovane e carismatico – King aveva 36 anni all’epoca – ma narrato anche nelle sue più intime debolezze, nell’ordinarietà della vita familiare così come nel dissidio interiore di fronte alle conseguenze più estreme della lotta non violenta. Un gigante “spirituale”, un grande statista, un incredibile comunicatore, ma anche un uomo fragile, che nell’incipit del film immagina con ironia un destino da maestro di campagna, da ultimo tra gli ultimi, per sé e la propria famiglia. Agiografia? Il rischio c’è, ma la mediazione offerta da Oyelowo nell’interpretazione soprattutto degli “a duo” con la moglie Coretta (un’intimità palpabile che la messa in scena accentua con una totale sospensione dell’azione e la completa privazione dell’audio ambientale) preserva meditazione e mistero.
Di grande eloquenza e attualità, infine, più dell’acclamato discorso “We shall overcome” sul finale, il blocco narrativo in cui King svela a due giovani militanti – critici nei confronti della provocazione mediatica come strumento di lotta per i diritti civili – come politica e comunicazione siano tra di loro interdipendenti, e come la creazione di immagini costituisca di per sé un atto politico. Una lezione che Ava duVernay sembra aver imparato, anche a spese della verità.

La citazione: “Il nostro compito è negoziare, dimostrare, resistere”.

Per il fine settimana – O Germania, o frantumazione, o età di mezzo

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Mercedes vs Semaforo (rielaborazione di Gianluca D’Andrea)

“O Germania, o frantumazione, o età di mezzo”. Partendo da O Germania di Franco Buffoni (Interlinea, Novara 2015), con favola in appendice.

Buffoni, O Germania 180Se il libro di Buffoni, O Germania, sia una ricognizione della storia d’Europa attraverso la sovrapposizione delle vicende personali e le riflessioni, altrettanto personali dell’autore, alla questione del predominio tedesco all’interno dell’area euro, perde rilevanza a favore di altre considerazioni.
Non voglio certo approfondire, per mia debolezza strumentale, le eventuali potenzialità o fragilità di un’Europa evidentemente “germanocentrica”. Mi piace allora considerare la “frattura” dei caratteri emergente dalla lettura del libro, la cui prima sezione in prosa ha la valenza aneddotica, “perlustrativa”:

Mercedes vs Bmw

Una trentina di anni fa, quando ancora scorrazzavo per l’Europa in macchina, mi accadde un significativo episodio su un’autostrada tedesca. Percorrevo il breve tratto tra Bonn e Colonia, dove ero atteso all’Istituto Italiano di Cultura; ed ero in ritardo per via di un malinteso sull’orario. Guidavo allora una BMW 320 a iniezione, una vettura – guarda caso – tedesca, che in condizioni di assoluta sicurezza consentiva velocità molto elevate. Mi portai in corsia di sorpasso e pigiai sull’acceleratore: certamente viaggiavo oltre il limite consentito su quel tratto autostradale. Ad un tratto una Mercedes che avevo superato, d’impeto mi si fece vicinissima con i fari abbaglianti sgranati costringendomi a farmi da parte. Dopo avermi risuperato, la Mercedes rallentò fino a rientrare nella velocità consentita, ma senza lasciare la corsia di sorpasso. Impedendomi fino a Colonia di consumare la mia infrazione.
All’autista della Mercedes non avevo arrecato alcun disturbo, l’uomo non era in divisa, non era un tutore dell’ordine, era un comune cittadino. E se proprio vogliamo parlare di rischio, la sua manovra era stata molto più azzardata della mia. Ma l’aveva compiuta per farmi rispettare la legge. Sentendosi perfettamente virtuoso.
Questo episodio mi insegnò molte più cose sul carattere tedesco di un intero trattato di sociologia.

*

Odio e amore

Odio e amore, dunque, da parte mia nei confronti dell’immenso territorio che sta sopra la mia testa. E sopra quella della mia famiglia. Mio nonno Francesco Buffoni aveva fondato – recandosi personalmente in Prussia ad acquistare le macchine – uno dei primi ricamifici a Gallarate, nel 1910. Ma poi, sergente nella I Guerra Mondiale, per i postumi dei gas nervini austriaci, dal 1924 restò paralizzato su una sedia a rotelle. Morì nel 1944, mentre suo figlio Piero – mio padre – tenente di fanteria nella II Guerra Mondiale, si trovava nel Lager di Oberlangen, dove trascorse due anni sempre rifiutandosi di firmare per la Repubblica di Salò: aveva giurato fedeltà al re, mai avrebbe accettato di riacquistare la libertà passando alla “repubblica”, come scrive nel suo diario.
Sfuggì una frase a mio padre nei primi anni Sessanta, mentre il giornale-radio dava notizia dell’ennesimo assassinio di fuggitivi da Berlino Est. Alla mia domanda di scolaretto «I Vopos, le guardie di frontiera che sparano dalle torrette del Muro, sono russe?», mio padre – che della sua esperienza non faceva mai parola – bofonchiò: «Se fossero russe non prenderebbero così bene la mira».

*

Strade e elegie

Io sono stato decisamente più fortunato di mio padre e di mio nonno: quando compii vent’anni, nel 1968, ero studente alla Bocconi. Ma feci a tempo a conoscere le guardie di frontiera tra le due Germanie. Nel 1973 rientravo in Italia da Edimburgo – dove mi ero trasferito per continuare gli studi – con la mia 128 gialla targata Varese e comprata a rate. Cambiavo ogni volta itinerario: quell’anno presi la nave da Leith a Copenaghen, mi fermai ad Amburgo e poi decisi di visitare Berlino Ovest scendendo a Sud attraverso Lipsia e Monaco. Giunto in località Ludwiglust entrai nel territorio della DDR. Era il tramonto: fotografie di fronte e di profilo, permesso di transito. Non feci molto caso a ciò che stava scritto su quel foglio. Ripartii baldanzoso, ma non avevo fatto i conti con la strada, che subito dopo la frontiera divenne stretta e accidentata: in pratica era rimasta quella del tempo di Weimar o al più di Hitler. Alle otto di sera capii che non sarei riuscito a raggiungere Berlino Ovest per cena come avevo previsto. Mi fermai in una Gasthaus molto modesta. Dopo cena, stanco, chiesi una stanza per la notte. Al mattino ripartii e in un paio d’ore raggiunsi il confine.
Avevo un permesso di transito di sei ore. Dove e con chi avevo trascorso le altre dieci?
Auto, passaporto e bagaglio requisiti, cintura e stringhe sequestrate: in cella.
Alle tre del pomeriggio un ufficiale mi interroga: ripeto la nuda e cruda verità già detta al mattino ai graduati: avevo fame ed ero stanco, mi sono fermato a dormire. Dovevo dimostrarlo. E lì mi salvò l’amore per la lettura: mi ricordai che al Frühstück stavo leggendo Rilke e che probabilmente la ricevuta della Gasthaus era rimasta nel libro. Dal bagaglio requisito riapparvero le Elegie duinesi. Telefonata, conferma, rilascio con rimprovero severo: «Das ist sehr unmoralisch».

***

Il libro possiede, comunque, evidenti intenti polemici – l’ironia, sostenuta dallo schema del pamphlet è un innesto reattivo che scatena le possibilità critiche della parola di poesia, dirigendosi all’invettiva.

Oggi che la Germania

Oggi che la Germania
Non è più il mostro accucciato
Che ho conosciuto nell’infanzia,
Oggi che è tornata arrogante
E la sua
Meticolosità nell’efficienza
Mi appare per quel che è
– Nevrosi da obbedienza –
Io le ripeto: quieta, zitta, a cuccia
Già hai dato il meglio, non strafare.

La frantumazione politica in seno a un’unità che vira verso l’accentramento decisionale di un’unica nazione potrebbe condurre a vertici di orgoglio nazionalista, pericoloso e ambiguamente reazionario. All’interno delle nuove dinamiche capitalistiche si creano già nuclei non statali, aggregazioni più economiche che semplicemente territoriali: si fa luce una frustrazione autonomista in cui le stesse nazioni sono viste come vincoli per la produzione e lo sviluppo.
Paolo Gila in Capitalesimo (Bollati Boringhieri, Torino 2013) illustra significativamente l’ininfluenza dell’economia statale (e quindi il potere effettivo degli stati) al cospetto della invasiva e fantasmatica – invasiva perché fantasmatica – economia globale, la quale si nutre anche grazie alla turboplutocrazia in equilibrio sulle fibre ottiche della Net-sfera. In riferimento all’area euro, Gila ci informa che:

«Il potere sovranazionale si afferma grazie a due grandi mezzi: la moneta unica e la salvaguardia della cultura localistica. Non è un caso che il processo di integrazione dell’Unione Europea abbia spinto su queste due leve per affermarsi. La nascita dell’euro ha integrato mercati e popoli dentro un’unica piattaforma di liberi scambi. Il trattato di Maastricht ha fissato le regole generali di impostazione e sviluppo, il trattato di Schengen ha sancito le modalità di contatto tra le varie zone. Ma il piano complessivo è di tipo federale […]. Tuttavia nell’idea di “federalismo europeo”, quella cara all’ispiratore Jacques Delors, il regionalismo trova massima espressione. Così, mentre si rafforzano le decisioni a livello superstatale e comunitario, si irrobustiscono anche le autorità e le decisioni locali. In questa visione i particolarismi locali, le autonomie provinciali, le regioni, le macro-aree sono i naturali contraltari allo stato nazionale, che deve essere progressivamente spento a residuo, secondaria e marginale sfera di potere e di decisioni.
[…] Tutto ciò impone che gli stati cedano la loro sovranità ad un governo europeo. Se si vogliono trovare le antiche basi storiche, il modello europeo è stretto in una morsa doppia, tra la visione carolingia dei francesi con un forte apparato centrale in un contesto di difesa delle autonomie locali e la visione tedesca che rievoca la lega anseatica, con la libera circolazione delle merci nelle zone franche, e la dinamica teutonica di avanzamento graduale per integrare territori e regni.
[…] Ma il disegno tedesco di riunire in un unico modello di riferimento con una sola area monetaria l’Europa era già presente nell’Internazionale Institut für Nationalitätenrecht und Regionalismus, più comunemente noto come Intereg, fondato nel 1977 a Monaco di Baviera. L’Intereg è un nodo nevralgico di una rete estesa […]. In Europa, falcidiata da una serie di guerre funeste, si dovrebbero abolire le nazioni per dare vita a ciò che “in passato erano i piccoli principati di Burgundia, Piccardia, Navarra, Alsazia, Lorena, Saar, Savoia, Lombardia, Napoli, Venezia, gli Stati Pontifici, la Baviera, il Baden, il Galles, la Scozia, la Cornovaglia, l’Aragona, la Catalogna, la Castiglia, la Galizia” e via discorrendo. Quasi nascosta come un fiume carsico, questa cultura è riuscita a progredire, a farsi forte, a condizionare le opinioni dei politici e ad avere il gradimento dei mercati e dei suoi operatori, tanto da ispirare, ad esempio, il progetto del filosofo politico Rudolf Hilf di una “Convenzione Internazionale per i diritti dei gruppi etnici” insieme ad un “Protocollo europeo delle regioni”.
[…] I pezzi del puzzle si compongono negli anni e nel territorio: l’Europa è un fermento di idee che hanno un obiettivo chiaro, quello di comporre un’unica area monetaria dove lo spazio di autonomia sia concesso in prevalenza alle realtà locali e in subordine alle istituzioni statali, che devono essere stemperate nella sovranità superstatale. È un modello che somiglia ai regni del Medioevo, in quelle regioni dove, sotto l’egida di un sovrano che aveva l’autorità centrale e il potere di legiferare e di coniare moneta, le genti locali potevano continuare a vivere nel rispetto delle proprie tradizioni e del diritto romano che seguivano da anni. Certo, le differenze tra la realtà attuale e quella passata sono notevoli, ma l’affinità e la consanguineità dei modelli sono altrettanto robuste. La novità che la storia attuale presenta rispetto al passato è il ruolo del mercato.

[…] Il 17 luglio del 2012 il governo italiano ha approvato lo statuto e la convenzione del GECT (Gruppo europeo di cooperazione territoriale) tra Friuli Venezia Giulia, Veneto e Carinzia, autorizzandone la creazione. Si tratta della prima esperienza di Euro-Regione senza confini, che sarà progressivamente dotata di propri organi istituzionali e si occuperà di sviluppare progettualità comuni in modo semplificato, attraverso un’unica rappresentanza comune. Attenzione, il GECT Friuli Venezia Giulia, Veneto e Carinzia, potrà chiedere fondi e risorse finanziarie direttamente a Bruxelles senza dover passare dai rispettivi governi nazionali, italiano e austriaco, per la preventiva autorizzazione. A ciò si aggiunga che i prestiti erogati all’Euro-Regione non andranno a gravare sul debito pubblico degli stessi stati. Una rivoluzione epocale».

(Paolo Gila, Capitalesimo, cit., pp. 49-52).

***

Il ragionamento sui caratteri dei popoli cammina sul filo dell’aneddotica di matrice romantica. Eppure desidero anch’io chiudere questa piccola riflessione con un aneddoto perché, forse, è proprio dentro il “comune” del “luogo comune” che risiede un nuovo orientamento, certo individuale che, in O Germania risalta evidente, non significa sempre restrittivo.


APPENDICE: Favola meridionale con clacson

Era un giorno qualunque, un mattino qualunque d’inizio estate. In quella particolare città siciliana, in cui mi ritrovai per nascita a vivere molti anni e alla quale mi sento molto legato – come una chiocciola al cespo di lattuga in un orto abbandonato – accade che le persone abbiano la consuetudine di attendere, con qualunque mezzo di locomozione a disposizione, lo scatto del semaforo verde con la mano appoggiata sul pulsante del clacson. Il motivo di tale pratica risiede nel gioco di riflessi e nell’apprensione sonora utile alla necessità di far proseguire la circolazione stradale.
L’abitudine è tanto radicata che i conducenti molto spesso non fanno più attenzione al semaforo e si concentrano sul richiamo sonoro, non più sentito come rimprovero ma come necessità. La mescolanza di necessità e comodità caratterizza un habitus mediterraneo tra i più diffusi, di quella latinità, cioè, screziata da molte culture.
Tornando a quella mattina, non occorre aggiungere che mi trovavo in macchina, alla guida, e non mi erano consentiti alta velocità o sorpassi di sorta, ma prospettive di imbottigliamenti e teorie di veicoli ai semafori. Di fronte al Palazzo della Provincia, in quella particolare città, si staglia la copia di una statua famosa che rappresenta Nettuno nel gesto di placare le salse acque. Il gesto (apotropaico?) simboleggia la difesa della città e dei cittadini in essa contenuti, ma le terga della statua, rivolte alla terra ferma, richiamano buffamente l’abbandono metonimico al destino di tutto ciò che in quella terra è contenuto: un deretano dritto in faccia alle amministrazioni “civili” di un luogo che si produce fagocitandosi nell’arrembaggio più brutale alle cariche pubbliche, sistemazione per l’individuo senza riguardo al collettivo. Vicino alla statua, comunque, sulla strada che porta al centro città, c’è un semaforo. Proprio in questo punto mi ritrovai in coda con la mia autovettura, in attesa che un segnale ci portasse alla continuazione del tragitto. Aspettavo, aspettavo svogliatamente ma con la rigida convinzione etica di non suonare il clacson allo scattar del verde. Nonostante il proposito, chi mi precedeva pensò bene di aspettare il segnale sonoro rinunciando all’attenzione per quello visivo e, in buona sostanza, fui costretto a suonare il clacson, mandando gestualmente a quel paese il mio concittadino. Svincolato dal primo intoppo, continuai lentamente il mio percorso al semaforo successivo, dove mi attendeva l’altro capitolo dell’avventura segnaletica. Uno sconosciuto in motocicletta accostò l’autovettura con me alla guida, chiedendo a gesti la possibilità di interloquire. Costretto dalla pausa forzata, in attesa di un segnale, abbassai il finestrino mettendomi in posizione d’ascolto col gomito sullo sportello, in un atteggiamento tra il sussiegoso e l’indolente. Lo sconosciuto mi rimbrottava riferendosi a quanto accaduto al semaforo precedente: pur non essendo coinvolto in maniera diretta, mi disse quanto fosse ingiusto mandare a quel paese chiunque per un errore, una svista – e non siamo tutti passibili d’errore? – un non comprovabile sbaglio che non giustificava la mia reazione stizzita e pulsionale. Non ebbi il tempo di controbattere all’accusa perché scattò il verde e lo sconosciuto ripartì sgommando sulla sua moto, lasciandomi solo ad ascoltare i clacson reboanti che mi svegliavano da quell’accusa imprevista. Riflettevo sulle parole «tu non hai mai sbagliato?», forse banali eppure cruciali in quel momento – come a ogni incrocio semaforico – in cui si perdeva il confine tra la regola e il suo eccesso, dove l’habitus diventa alibi che può giustificare un comportamento ritenuto “incivile”, dove l’individuo si separa dalla collettività e persegue il proprio errore.
O Germania, consentici, ancora, la potenza dello sbaglio, di riflettere sulla norma; o Italia, rifletti con decisione sulla norma come potenzialità della condivisione.

Gianluca D’Andrea