Poesie: Fabio Pusterla da “Corpo Stellare”

Quali compagni di strada immaginare?

Nessuna strada, per me, nessun compagno,

solitudine. Pure, da queste ghiaie sedimentarie,

corse da venti di mare e nostalgia,

affido al vento un richiamo ai fratelli mancati,

persi nell’universo: a te dolcissima Lucy,

sorella silenziosa, reginetta

di sconosciute savane, che forse agitavi nell’aria

come un ciondolo festoso un bastone e correvi

lieta verso qualcuno, madre o amante animale,

nei profumi; a te, fratello mite d’oriente,

nomade esploratore che attraversi

lo spazio verso est, seguendo i cervi,

la luce e l’acqua, un sogno o una speranza;

a voi tutti, sepolti

tra i dirupi e le gole, in mezzo ai boschi,

a voi imperfetti che conoscevate

la carezza e la sete, il calore dei corpi e la paura,

la pioggia e il sole vero, il sonno dolce, i millenni,

a voi chiedo perdono di una colpa

non mia. Ma non cercatemi, vi prego,

dietro le vostre spalle, non credetemi

parte di voi, o memoria.

Solo, se un giorno l’aria si facesse

più densa, o se nel fiume un raggio o un breve

guizzo disegnassero un’ombra, o se le fronde

più alte si muovessero improvvise come mani:

solo, ascoltate.

Qualcosa spinge avanti, che promette;

un respiro profondo vi chiama,

e chiede impegno, coraggio,

chiede amore e pazienza.

Se esistessi, vorrei essere laggiù,

dentro il vostro viaggio,

non all’origine ma verso l’orizzonte,

dietro quel mare che raccoglie l’acqua,

evapora e ricade

sulle foglie dei boschi. L’alba, la vostra alba

è in movimento, la mia, falsa,

è fissa in un passato che non c’è; dal mio deserto

di pietra e di museo, di ferro e d’odio,

guardo al vostro viaggio senza fine,

verso l’alba dell’uomo che verrà, verso quel mondo

che io non so immaginare e che risplende distante

a voi, come un’ansia di pace,

splende quando guardate

le stelle e non parlate.

Attorno ai fuochi, ascoltate. Accanto ai cani.

***

Basta un raggio di sole per accendere

i pesci e gli animali sulle rive: e come splendono

le foglioline piùchiare, e quelle pieghe

del marmo sulla smorfia dei dannati,

il bianco e le creature

d’Orvieto. Ma nel bar,

proni sopra i pulsanti, ragazzini

muovono calciatori virtuali, e ad ogni azione

s’illumina lo schermo d’un boato dagli spalti.

Anche mio figlio

è con loro stavolta; ma non sa

a cosa corrisponda il tasto verde, o quello blu,

e lo chiede lieto

ai suoi nuovi compagni. Che lo guardano

attoniti, di colpo senza voce.

Ma sei straniero, dicono, non sai

neanche come si gioca? E il loro dubbio

tecnico, non linguistico,

pare a me atroce.

***

Lettere da Babel

1

Dici di aver sognato un sogno orribile. In TV

ci vedevi morire sepolti tra macerie,

ed era lunga la scena, interminabile,

ripetuta più volte: il grande crollo della torre di

Babele, e noi là sotto, bianca polvere mediatica. Tu

venivi poi affidato a governanti severissime,

teutoniche o anglosassoni, cattive. Noi dispersi.

Aggiungi, ma non c’entra, che vorresti

forse impegnare i tuoi risparmi per un nuovo

videogioco che ha un nome sorprendente:

PANDORA TOMORROW. E siccome

non sai nulla o quasi nulla di Pandora ti racconto

l’invidia degli dèi per noi imperfetti

testardi esseri umani,

mangiatori di pane, sensibili alla bellezza.

E ancora giorni si susseguono, viaggi,

e sempre quel tuo sogno mi accompagna,

in segreto, e non capisco perché; finché guidando

nel traffico tra Modena e Bologna,

mentre uno sciame di passeri

sale su da dietro un muro come un vento di mare,

anche le immagini cominciano a volare

in una sola direzione, come i passeri,

confuse eppure unite, non senza un po’ di grazia

e di paura. C’è qualcosa

di vero nel tuo sogno, una visione

nitida che ci sfugge. E per questo ti scrivo. Perché so,

adesso so, che siamo qui davvero, io e tua madre,

e ci teniamo per mano in mezzo a tutte

queste macerie

di una cosa che non è crollata ancora, ma vacilla

e forse un giorno crollerà.

Chiamala Europa, o mondo,

o solo un altro sogno; e forse èl’ombra

di un secolo e di un vuoto

che abbiamo visto e sperato di cancellare con la gioia.

Un pezzetto di gioia per ciascuno:

era questo il disegno,

niente di complicato. Un poco a tutti.

Da qui ti scriviamo,

e siamo in molti, segnati da riso e mestizia.

Altri parlavano

delle grandi vittorie, di rinascite. Noi sappiamo

da tempo: la sconfitta,

questo era il vero punto di partenza.

Dovere di memoria e di speranza,

diritto alla felicità sempre negata, sempre

da costruire. E la vergogna,

anche, da non dimenticare:

tutto ciò che era stato, e non doveva

essere mai, mai più. Ieri la voce

più alta di Sarajevo diceva, la mano sul cuore:

sono stato

parte di una speranza collettiva, era un progetto

da oceano a steppa, vasto come il vento,

ed è crollato. Posso solo

alzare la mano sinistra, nera di tristezza,

la destra non si apre più, chiusa in un grido

che salda le unghie alla carne,

la Bosnia all’Europa che cade.

***

2

Qui ci sono terrazze,

balaustre a cui appoggiarsi, carissimo figlio,

sporte sulla pianura;

guardiamo le strade uguali, monocordi,

il flusso ordinato del traffico e dei giorni, il tuo futuro,

e non siamo sicuri di niente. Ma speriamo.

Assurdamente, speriamo. Il fuoco è acceso.

Dita come farfalle

corrono sopra le corde di molte chitarre,

strane lingue s’incrociano

bisticciano e si sfiorano, canzoni

passano lente o veloci attraverso i cieli,

il vino è buono.

Adesso siamo seduti su un ponte fra rive invisibili,

sopra un fiume che luccica e canta, e si sorride.

Domani, poco prima dell’alba,

quando affiorano i pesci

e guizzano sull’acqua luminosi,

con un battito d’ali Pandora

scivolerà dal letto, seminuda e dolcissima,

confusa nel chiarore.

La seguiranno col fiato sospeso

gli dèi del cordoglio e dell’ira,

la sbircerà fra le ciglia il povero Epimeteo,

l’abbagliato,

e sulle vette del Caucaso le aquile

solleveranno i loro becchi insanguinati. Vai, ragazza,

dice l’alba che arriva leggera, una seconda volta

e non temere, guarda come la luce

circonda ora la terra, è una carezza,

e tu continua, con pazienza

avvicinati a te stessa, a quel destino che salva

o che condanna. L0 sai: TOMORROW IS NOW,

per te e per tutti.

Babele dorme,

sogna nelle sue lingue la gioia intraducibile.

***

I gesti del lavoro

E poi talvoltadai gesti opachi del lavoro

scivola fuori il motivo di una danza.

Allora le mani accarezzano l’aria

le braccia diventano i rami di un melo che si aprono

verso la luce, e salutano qualcosa.

E gli altri sono qui, tutti qui insieme:

tutti nel gesto, tutti nel movimento

di una mano che attraversa ere biologiche,

stringe una sabbia lontanissima,

un cacciavite, un martello, un amo, una lama di selce,

la pelle tiepida di un animale scomparso,

un sasso caldo di fuoco,

un sesso vivo.

Allora è grano, semi di cereali, vento

che muove i passi, e canta: sotto i piedi

ci sono le grandi pianure, le pietre bianche

di strade bianche di strade che portano al mare,

feste di stagione.

Allora seguo le oche selvatiche, i branchi di pesci,

so tutti gli odori del bosco, i percorsi dell’acqua,

risalgo la schiena d’erba delle montagne,

le valli del cielo.

Perché talvolta dai poveri gesti del mio lavoro

scivola fuori il motivo di una danza.

Allora non ho più peso, e sono libero

in fondo al mio segreto quotidiano.

E se la luce si fa più lontana

ne custodisco l’assenza.

***

Corpo stellare

Mi segui con un pensiero, sei un pensiero

che non devo nemmeno pensare, come un brivido

mi strini piano la pelle, muovi gli occhi

verso un punto chiaro di luce. Sei un ricordo

perduto e luminoso, sei il mio sogno

senza sogno e senza ricordi, la porta che chiude

e apre sulla corrente di un fiume impetuoso. Sei una cosa

che nessuna parola può dire e che in ogni parola

risuona come l’eco di un lento respiro, sei il mio vento

di foglie e primavere, la voce che chiama

da un posto che non so e riconosco e che è mio.

Sei l’ululato di un lupo, la voce del cervo

vivo e ferito a morte. Il mio corpo stellare.

***

Le cose degli occhi

Cosa dicono gli occhi cosa possono dire

le cose che le parole non riesconoa esprimere

luce dell’aria e dell’acqua

vento che si smarrisce s’incunea per valli e pianure

l’apertura dei tempi quello che fugge e che chiama

l’urto del sangue il grido del sangue

i futuri più vaghi

la certezza e la morte dei corpi

ciò che divampa e brucia

ciò che splende:

queste sono le cose che dicono e tacciono gli occhi

e altre moltissime ancora mute preghiere

bestie che nuotano o volano

baci carezze laghi verticali

cascate miniere.