Reinterpretare il mondo attraverso i testi di Gianluca D’Andrea – “Sesto Sebastian” di Marco Simonelli, Lietocolle, 2004

simonelli

Marco Simonelli

di Gianluca D’Andrea

Sesto Sebastian di Marco Simonelli, Lietocolle, 2004

Marco Simonelli_copertina… affondare lo sguardo nella meraviglia del corpo esposto, il divenire feticcio della materia carnale,  soprattutto nella “diversità” che è semplicità dispositiva dell’essere, inevitabilità identitaria.
L’ostensione del corpo-lingua diventa simbolo esiziale, pasto gettato teatralmente sul lettore a stimolarne i sensi, la sensualità-sessualità del corpo martoriato. Teatralità barocca, gaudente della lingua che si espone senza indugi, a rischio di fracassarsi sotto lo sguardo, che si suppone stupito, dello spettatore. Ma l’apertura sessuale è speranza incongrua perché esposta, lanciata: l’ostia di un sacro dettato che è gioia della nostra corporalità, senza remore: “lo sballo in cui mi porti e mi conforti/ l’intervallo del mio corpo con tua pelle, i rapporti/ i carnali rapporti che tacesti, da me li avesti“. “Il tormento dell’amore” non conosce ripensamenti, è proiettato globalmente e punito per la sua spudoratezza, per la paura che il “testo” del mondo venga sovvertito ed i rinvii fonici, le allitterazioni aeree esplodano la nostra asfissia economica, un linguaggio azzoppato, conservatore, che risparmi sull’effusione di carne. Sesto Sebastian è l’enunciazione volatile di parole che non si preservano: “è questa la mia faccia, la mia freccia,/ la voglia rara/ per voi a me donata“, così il personaggio ritrova la sua faccia, la sua identità, getta la maschera nello scoppio infinito di frecce. Così si ostende la lingua come corpo sacrificale che produce comunicazione ardita, sanguigna. Essere oggetto dell’altro, “arnese” d’amore è una scoperta che proprio a causa del suo ardimento è mortificata dalla pioggia aguzza degli sguardi, dall’occhio comune e giudicante. In questa operazione la parola s’irrobustisce e non ha paura di giocare, esponendosi in metafore e metonimie performative, transformative: il soggetto poetico acquisisce sicurezza, non teme il supplizio dell’esposizione anzi va oltre, va all’espropriazione perché il suo messaggio è “attivato da verbo fatto nerbo/ che nelle vene mie mi scorre/ che nelle pene mie discorre” ovvero è parte di un sé diverso (privazione di sé), è fibra e dunque imprescindibile.
Si tenta una riformulazione di valori; lo spirito pare assorbito nel godimento sensuale, una terrena pienezza è disillusa solo nella concrezione dell’abbandono, separazione che lacera la rotondità del rapporto e che spinge la lingua a piangere un canto di passione, perché ha avvertito l’assenza del corpo dell’amato: “perché mai non concepisci/ il motivo aberrante (nocivo deterrente)/ che mi lega a te importante?“.
C’è la riflessione raccolta sul tema dell’omosessualità come condizione e non certo colpa, nonostante la rappresentazione teatralizzante parrebbe suggerire il contrario. Gradualmente Sebastiano-Simonelli si scopre: “pensarsi scisso”, “venga dentro di me”, “sentire che io più non mi appartengo, che pongo/ tutto
me sopra un vassoio”, “mi professo senza permesso nel processo/ sottomesso al sesso, al Suo possesso/ e genuflesso adesso mi confesso”, “l’umano,/ sempre vostro/ Sebastiano”; e questa umanità totalmente esposta, martoriata, è mitizzata e il corpo sessuale gaudente sarà l’adorazione della folla, la nuova meraviglia d’amore, l’orgoglio di una “divergenza” in amore nella rivoluzione concettuale del corpo che è nostra religione, legame…